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martedì 24 dicembre 2013

Natale veneto



Camminava verso di me. Oppure correva, in modo goffo, con delle zampe che non si sa per quale ragione potessero reggere il peso di tutto il corpo. Se qualcuno entrava in casa, suonava, si avvicinava all'entrata, marcava subito il territorio: qui passi se lo dico io, e comunque avviso tutti. Non si sa mai. 
Una volta mi ha morso e ho trovato la cosa davvero inqualificabile: mordere me. Non so e non ricordo nemmeno se avessimo sviluppato i concetti minimi di empatia, ma stazionava lì, sul suo letto, a passarle amore, in quel modo incondizionato e scemo come solo i cani sanno fare.

E sentirla abbaiare scatenava in me riflessi pavloviani: ero arrivato a Treviso, avrei passato lì il pomeriggio (le giornate), avrei visto film, bevuto vino (dove cazzo fosse nascosto quello buono permane un mistero dopo anni), dormito in un letto comodo ed immenso. Erano in fondo anni eroici, con decisioni che parevano ponderate, ma erano frutto di grande improvvisazione, voglia di rischi oltre i calcoli dei 19enni, eterni viaggi in treni lenti che non arrivavano mai. 
Erano anni interessanti ed anche il cane di lei, aveva un suo preciso ruolo nella mia vita.
E sapere che ora c'ha lasciato non era una bella notizia. Per Elisa, per Niki, ed, egoisticamente, anche per me. Era in fondo, un pezzo sepolto della mia adolescenza che veniva a mancare, stavolta definitivamente.

Mi venne da piangere.

sabato 26 ottobre 2013

Berlinguer, il colpo di stato in Polonia, la fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre e le critiche di Cossutta.


Nella stessa settimana m'era capitato più volte. Per motivi diversi. Quella stanchezza, quell'indifferenza, quella mancanza di voglia di ribattere, ribadire, precisare. Per il lavoro, per la famiglia, per un libro o per una discussione. Quella sensazione pensante, in cui sai che potresti far valere qualcosa, ma non te ne curi più. Ti chiedi se non sia una perdita di tempo, una inutile regressione post-infantile discutere. Ti chiedi se davvero sia poi così importante spiegare. Se davvero tutto non sia una gigantesca perdita di tempo. Se non ci sia un sorta di recita in cui ognuno debba dire le proprie logore battute senza che questo cambi in nulla una trama scritta da te medesimo in un momento di vigore. Se non stai meglio sulla tua bella ed inospitale torre di plastica. Vedevo le cose intorno a me, e le lasciavo andare. Era stanchezza (fisica, mentale), logorio, febbre. Era un mix di tutto. Mi era capitato qualche volta in passato (ricordo che nell'ultimo periodo [le ultime 4-5 settimane] di vita tedesca avevo mollato qualsiasi discussione perché avevo già preso ogni speranza e aspettavo solo la mannaia, quasi con trepidazione da dolore), e sarebbe ricapitato in futuro. Mi accontentavo di cercare un libro con un personaggio nuovo di cui avrei vissuto la vita per qualche giorno, o di un film nel quale ci fosse qualcuno come Matt Kowalski, un uomo con il quale parlare che avrebbe rimesso le cose a posto, nello spazio, in  una birreria in disuso del Connecticut, o in treno di notte. O forse avrei parlato volentieri con Moretti ne La Stanza del Figlio. Non per capire nessun tipo di dolore (di quello degli altri ci si rimette sempre e comunque non lo si capisce, perché della vita degli altri non sai mai un cazzo), ma solo per buttare giù due parole ad Ancona. Brian Eno era già in sottofondo.

lunedì 23 settembre 2013

La sera del film brasiliano, della gonna con i gatti e del suo sorriso



Bene, s'era deciso per il festival del Cinema Brasiliano. Io lo sapevo e temevo che sarei stato un po' triste, perché il Brasile, A., il passato, il Guarana Antarctica e tutte 'ste menate qua. Poi era arrivata la nostra amica (la mia!) con la sua gonna con i gatti, sorridente e sprizzante speranze, era arrivata Pavlov, eravamo andati in libreria a vedere 12908 libri (gialli con titoli brillanti, saggi di politica estera, romanzi sui dolori mediocri di chi era cresciuto nella DDR  e storie di improbabili [e perciò meravigliosi]) successi personali. Avevamo pure parlato di Max & Mary e per la prima volta avevo pensato che forse A., in un momento estremo di perfidia (e avvedutezza) m'avesse proposto di vederlo quella sera qualche anno fa solo per cominciare ad abituarmi all'idea.

Poi avevamo preso il biglietto per VIPS, e luci s'erano spente e miracolo: si parlava portoghese brasiliano. E a parte il fatto che capissi quasi tutto 'para com isso (Davenne..)', a parte il fatto che riconoscessi luoghi e modi di vestire persone e posti (la rodoviaria! Fa sempre parte di ogni mia raccolta di ricordi sul Brasile, la Rodoviaria, la sua piccola economia e mondo circostante, i bus dignitosi, i bar, i pastel, gli açaí com leite condensado, il pub con la musica rock e le luci accennate, i biglietti di fare...), a parte il fatto che fosse tutto melanconico per me, mi rendevo conto che oramai andavo avanti, senza più dolore, solo con una cicatrice mai rimarginata, ma nell'ombra, che non si vedeva più a occhio nudo, era lì e basta, come quelle delle vaccinazioni che ci han fatto da bambini.

La mia amica sorrideva, le lunghe gambe di Pavlov eran sempre più slanciate, il suo bel vestito da sera ne risaltava il carattere buono e un po' difettoso, io bevevo la seconda birra, pensando tutto qua?
Niente dolore assurdo, niente fitte, ma nemmeno niente sorrisi tristi, niente felicità di facciata, niente noncuranza piena di dolore, no. Peter Bascombe era passato con la sua auto, il carnevale di Recife era andato, il volo GOL partito e io non avevo problemi. Il passato era sepolto, con una mano atroce protesa fuori dalla bara e dalla terra, la mia amica sorrideva pensando ad un futuro incontro col tatuatore che le piaceva, io volevo ordinare la terza birra e Pavlov sorrideva in modo amorevole.

La Merkel stava per vincere le elezioni, sì, le avrebbe vinte, eppure la somma di voti dei partiti di centrosinistra era maggiore. Qualcosa era pur cambiato.

venerdì 23 agosto 2013

Lantana



La Stanza del figlio, morto, Jack Torrance che diventa pazzo, Richard Ford perso nei lunghi viali di provincia mentre vende case (no, era Frank Bascombe), il volo per l'Iran che era partito senza di te, le antiche frustrazioni della belle 38enne, il macellaio pensa alla carne, l'agnello guarda il coltello, un uomo che si era messo in una situazione più grande di lui e vedeva tutto affondare senza avere alternative più razionali del suicidio, il cancro che ti trovano, ma tu eri pieno di salute fino a 2 generazioni prima, l'Italia sempre più brutta e sempre meno umana, i figli che continuano a morire (perché?), Truffaut che fa il suo ultimo film pensando a tutti quelli che ha davanti, lo scrittore che scrive la sua ultima riga ben sapendo che sta crepando e la battaglia contro la cirrosi non è stata nemmeno combattuta, Le battaglie non si perdono, si vincono sempre, eppure a me pare che a volte non si vincesse, gli ultimi soldi prima dell'oblio, le onde bretoni remissive e pronte a tutto, chi ti chiedeva 20 cent per strada ma tu eri troppo preoccupato a pensare a cosa avresti mangiato 5 minuti dopo.

martedì 20 agosto 2013

La mannaia del fallimento dell'Iowa





Una persona che quando morirà nessuno si accorgerà della sua assenza.

Così diceva il ragazzo, al padre. Era un film (semi)scemo: Kick Ass II, e certo la battuta non era né originale, né degna d'essere la pietra sulla quale fondare un nuovo genere letterario. Però aveva affondato il colpo. Un uomo la cui mancanza nessuno avrebbe sentito, dalle qualità del buon padre di famiglia, ma silenziose, impercettibili per chi  non avesse abbastanza pazienza da osservare le cose con passione e distacco e allo stesso momento. Quindi per nessuno. Un uomo che conduce la propria vita nei limiti della propria mediocrità, sforzandosi per anni di vincerla e poi rassegnandosi dolcemente e con impotenza. Un uomo che sarebbe morto nel dolore di pochi, nel dubbio di essere persino in grado di causare un dolore che andasse oltre quello socialmente ed eticamente richiesto. Sarebbe scomparso nelle sue lenzuola da classe media, in un ospedale mediocre (ma che soddisfaceva comunque i criteri di qualità fissati dal Ministero della Salute), nella sua casa di campagna, mentre contava quanti soldi avrebbe potuto investire nei regali di Natale. Nessuno si sarebbe accorto della sua mancanza, un giorno non ci sarebbe più stato ed ogni ridicola e fondamentale azione umana sarebbe comunque andata avanti. 

domenica 14 luglio 2013

La terza volta nella città di B.



La prima volta ci arrivai in treno da Zagabria. Era 6 anni fa. La prima volta ero con Chiara, quindi non parliamo nemmeno di vita precedenti, ma di ere geologiche diverse. Avevo l'albergo dietro Kelety Pu. Era tutto semplice e tutto imperfetto. Prendevamo la metro con lo zainone in spalle, perché questo facevano i giovani viaggiatori. Facevamo colazione in Hotel (lo Star Hotel: l'affetto rinvigorisce i ricordi), di giorno visitavamo ogni cosa fosse possibile vedere tanta era la (mia) sete di immagine diverse (passavamo 1000 volte di fronte all'hotel centrale, Il Mercure di Vaci Ucta), la sera, tornando dalle interminabili camminate, guardavo dai vetri dell'ascensore una coppia di adolescenti tedeschi che giocavano a carte sul letto (erano entrambi in mutande) e desideravo essere al loro posto. Perché avevano un tipo di intimità che a me sfuggiva. Camminavo. Una sera andammo in un bar di quartiere vicino all'hotel. C'erano solo persone del posto. Mi parve una grande conquista. Poi in hotel lei si mise a dormire, io facevo un po' zapping sulla TV. Beccai un porno. Spensi e mi misi a dormire.


La seconda volta ci arrivai in treno da Graz. Nel 2009. Con un treno assurdo, ci volevano 7 ore, si partiva tipo alle 6 di mattina. La seconda volta ci andai con A., un amico turco e un tipo thai (era pieno di soldi, decentemente intelligente [ma non troppo] ed odioso). Stavamo in un ostello di cui non ricordo né nome, né location (l'odio corrode i ricordi). Affittammo una barchetta nel lago dietro Piazzale degli Eroi e tentammo di remare. L'amico turco se la cavava. Io per niente, non riuscivo bene ad imprimere né forza, né direzione. Di giorno visitammo un po' tutto di fretta (passammo 30 volte davanti all'hotel centrale, Il Mercure di Vaci Ucta: avevo proprio voglia di andarci). La sera uscimmo in un vecchio edificio underground, non prima di essere passati per Deak Farenc Ter a bere una birra (io non avevo mezza lira, anzi mezzo fiorino, quindi giusto quella potevo permettermi). Dopo un po' m'ero rotto i coglioni ed ero tornato in hotel. Mi districavo bene tra i vialoni di Pest. Il giorno dopo, a sera, tornammo in treno, lei si incazzò da morire per una stronzata (ah sì: le avev[am]o fatto una foto con una sigaretta mentre dormiva, forse): era il preludio della roba insensata che sarebbe avvenuta nei mesi dopo. Io tornavo stanco. Mi chiedevo se avrai mai più rimesso piede a B.



La terza volta arrivai in aereo. Ero con Pavlov. Era la vita nuova, quindi non c'era tempo per arrivare in treno. Del resto credo abbiano soppresso il diretto da Venezia. La terza volta non c'era tempo per arrivare attraverso le rotaie, ma c'era tempo per visitare, rivedere le piazze passate e vedere quelle nuove alla luce dei cambiamenti degli ultimi anni. Il Parlamento era sotto lavori. Idem il Budavari Palota. Piazzale degli Eroi invece era sempre lì. La terza volta anche passai decine di volte davanti all'hotel centrale di Vaci Ucta, perché stavolta ci alloggiavo. La terza volta potevo passare la serata a sentire musica in piazza mentre mandavo giù la terza birra (avevo i 5€ necessari per pagarle), potevamo buttarci nel parco a riposare (stavolta niente scialuppe ingovernabili), potevamo persino leggere libri sull'incivile ed irrecuperabile periferia romana. Camminavo ancora, con più fatica. La terza volta non ho fatto nemmeno una foto (una volevo farla). La terza volta non mancava nulla, seppure non ci fossero cose della prima e della seconda. E tornando in aereo i campi di grano alle porte della città parevano coltivati in modo stupido ed il Danubio assumeva un'espressione vincente e sobria.

domenica 30 giugno 2013

Mi piace la gente morta




Mi piace la gente morta. Perché sento retoricamente che il legame creato non può più spezzarsi. È destinato a rimanere inscindibile. Li apprezzo pensando siano vivi e quando scopro sono morti provo quasi un senso di sollievo. Non scriveranno idiozie. Non impazziranno. Non potranno deludermi. Non diventeranno cantori di ciò che disprezzo. Mi piace la gente morta, ma non per reazione contrario a quella viva. Amo anche i vivi. Accetto anche le manchevolezze, i mutamenti, i cambiamenti di chi respira. Fanno parte della realtà, e andare avanti dopo una ferita gestibile dà un certo senso di euforia.

Le persone morte hanno impresso la terra, hanno preso i loro treni e basta, ora non si può cambiare nulla. Hai fatto la tua scelta, ti piacciono o no. Certo, forse cambierai, e smetterai di apprezzarli, ma sarai te a farlo. La roccia è granitica, può cambiare solo il tuo modo di guardarla e di appoggiartici contro.
Persone morte, relazioni morte, viaggi fatti, testi scritti, voti dati, lavori compiuti, è tutto sotto terra, tutto immutabile, tutto passato nelle viscere della storia. È così.

E quindi? Quindi in casa mia voglio una foto di Impastato, ne voglio una di Bukowski, ne voglio una di Allende e ne voglio una di Truffaut. E Berlinguer.
E ne voglio una di Terzani, che scende dal suo espresso (in realtà sarà andato a 70km orari, con gravi problemi di stabilità) sovietico, arriva in una nuova città, che già guarda ed analizza con la sua intelligenza acuta, etica e critica. Mentre pensa alla prossima.

giovedì 20 giugno 2013

Il libro che aveva attraversato due vite




C'era questo libro di Richard Ford, ambientato tra New Jersey e le meravigliose, squallide e linde città di provincia americane. È un libro che insieme ti dà la voglia di vivere e suicidarti. Lo so, sembra una di quelle frasi idiote da liceale pre-sesso, pre-lavoro, pre-delusione (in effetti, lo è), ma è così. Ad ogni modo c'è questo libro, che è la seconda parte di una trilogia iniziata con Sportswiter. Se l'avete letta, bene. Altrimenti fatelo. Ad ogni modo.

C'era questo libro che stavo leggendo nel 2010. Vivevo in Germania, avevo altri film da vedere (avevo persino visto L'Eleganza del Riccio in tedesco), bevevo birra diversa (Falken.. qualcosa, costava tipo ,39c a bottiglia, più il vuoto. Non era granché, ma si poteva comunque mandare giù), giravo città e vie diverse (che poi erano anche migliori, più pulite, più carine, niente a che vedere con quella fogna a cielo aperto di Roma), avevo anche compagnie diverse e vecchie amicizie (una ragazza ucraina che ora studia architettura. E manco era bionda) che il tempo a dire il vero ha un po' cancellato. Ad ogni modo. 

Lo stavo quindi leggendo in primavera. Ora, sono passati 3 anni e non mi ricordo tutto di preciso. Ma ho questa precisa immagine di me: io che mi sbatto tipo 12 km in bici (la bici faceva schifo, aveva i freni rotti, il cambio sfondato, e avevo dovuto riempire di scotch il manubrio, altrimenti saltava la catena, vabbè inutile spiegare), poi arrivo in un parco di Monaco. Mi butto sull'erba e leggo Il giorno dell'Indipendenza. Quello col misto di vita e suicidio e blabla e la cazzata che ho scritto prima. Quello col personaggio che è un ibrido tra due cose troppo strane e distinte tra di loro. Un eroe anonimo ed affascinante. Insomma, mi metto lì sull'erba, sdraiato e le leggo. Leggo. Leggo. Poi riprendo la bici, mi risbatto X KM e torno a casa (vabbè, dove vivevo: di fatto una stanzetta), esausto. Poi la sera sento lei, che mi tratta come una merda umana (c'ero un po' abituato: l'ho scritto solo per completezza di particolari, non per autocommiserazione: ognuno si fa trattare come merita), poi il giorno dopo mi pare che viene da me e mi molla. Una scena pietosa, io che le corro dietro mezzo (mezzo?) piangendo. Mi sa che salgo pure in SBahn senza biglietto. No, in realtà avevo l'abbonamento (costava 82€ al mese) a casa, ma nella foga non lo avevo preso, boh. L'avevo raggiunta dopo mi pare. lei aveva mangiato al Burger King. La sostanza era che io volevo crepare e lei mangiava, per rendere l'idea in modo rapido. L'odio rovina i ricordi. Alcuni. Ad ogni modo.

Poi non ricordo bene tutti i cazzi, comunque smetto di leggere il libro. Mi dico che è legato a quel giorno e quindi lo abbandono lì. Passa qualche settimana, io faccio la cazzata di uscire ancora un po' con la tipa (quando si è vulnerabili si fanno un sacco di cazzate, ma questo è inutile scriverlo) e riprendo Il giorno dell'Indipendenza. Devo fare mente locale perché non ricordo ogni particolare, quindi lo riprendo da 20-30 pagine prima rispetto a dove lo avevo mollato. Lui è divorziato, è un ex mancato brillante giornalista sportivo che ora fa l'agente immobiliare. Investe un po' di soldi in un bar, che è un ritrovo su una superstrada da provincia. Il paradiso. Ha questa vita normale. Che in realtà non lo è. Ad ogni modo.

Ad ogni modo mentre leggo Il giorno dell'Indipendenza per la seconda volta, lei mi ri-molla, stiamo ad inizio Settembre. Stavolta ho un barlume di lucidità, quindi dopo qualche altro pianto e momento patetico alzo i tacchi e ciao. Mi costa un po' perché mi tocca abbandonare la superiore civiltà tedesca, il corso di lingua, la piscina a 3€, la lingua portoghese, ma tant'è, si torna a Roma. Bene.
Vorrei scrivere qualche parola sul penoso viaggio di ritorno tra Verona, Bologna e la Stazione Termini, ma non credo aggiungerebbe molto. Stavolta però sono deciso a non riprendere mai in mano Il giorno dell'Indipendenza, è ufficiale quando lo leggo vengo mollato. Lo metto lì, nella mia libreria che ritrovo dopo 1 anno e lì lo lascio. Seminascosto, impilato tra un romanzo inglese ed uno svedese.

Poi dopo 2 anni lo ritiro fuori. Lo porto al mare con me. Leggo 5 pagine, non ricordavo più una mazza. Scopro che il protagonista del libro, Frank Bascombe ha fatto un viaggio passando per la mia (semi) sconosciuta città natale (che si trova a 12.000 Km da casa sua, nel New Jersey, per dire), viaggio al termine del quale viene più o meno mollato della sua giovane e bella amante.
E litigo per la prima volta con la mia tipa.
Non dico quella che ha sostituito l'altra, perché non sostituisco nessuno. Però quella che mi sta vicino. Quella con la quale mi addormento. Ma questo non riguarda lei, non direttamente: parliamo de Il giorno dell'Indipendenza. Insomma lo porto con me e litigo, o meglio: lei litiga con me, perché il sentimento del dissapore personale per la minuzia è poco radicato in me. Insomma: fottesega.
Quindi stavolta il maledetto libro lo nascondo. Lo lascio a pagina 220, 230, boh, lì, non lo finirò mai. Rinuncio. Rinuncio al peccato. Non saprò più nulla di Bascombe. di Ann Arbor e tutti i cazzi ed i mali della provincia americana. Amen.

Ma io a volte persevero. Non sempre. Ma random sì. Quindi prima di partire per Siviglia (la ragazza è sempre quella con la quale mi addormento e che mi fa gli occhi innamorati e stanchi mentre mi aspetta col cane alla fermata della metro) metto in valigia il libro. In aereo (quel cesso Ryanair) leggo. Leggo. Leggo. Manco stessi a 3 anni fa, nel parco di Monaco. Ed è bello il libro. Non mi ricorda tanto del passato se non una leggera sensazione di malessere di sottofondo. Ma in sottofondo veramente, non per dire, quindi me ne sbatto. Leggo. Arriviamo in hotel, usciamo, mangiamo, beviamo  sangria, mi butto davanti alla Tv, e blabla. Ad ogni modo.

Ad ogni modo la mattina mi sveglio. Controllo le mail. È un casino perché il wifi non prende per un cazzo, e ci metto 5 minuti. Vedo un po' di roba, offerte di lavoro, programmazione cinema, madre, padre, twitter. Mentre sto accendendo avidamente la TV (la cosa più bella dei 2398 viaggi che ho fatto è sempre stata vedere la TV in hotel, no, scherzo. Boh), insomma mentre accendo e sto per vedere qualche grassa signora spagnola parlare dei suoi problemi coniugali, mentre Il giorno dell'Indipendenza è posato lì, sul comodino (il segnalibro è diventato il foglio di via di Monaco, per dire), mentre tutto va avanti, mentre gli aerei atterrano a Minneapolis, i treni arrivano a Praga e la ragazza cilena abortisce nel silenzio, vedo che c'è una mail. Una mail della prima tipa. Quella che non sento da boh, 3 anni. Insomma da tipo 4 giorni dopo che ero tornato da Monaco. Non lo apro e la lascio là. 
Come un'altra che arrivò un paio di anni fa. Ammuffirà tra una ricevuta di Amazon e quella di qualche CV. Ma ogni modo arriva. Mi convinco sempre di più dei poteri magici ed esoterici (divini?) de Il giorno dell'Indipendenza. Solo che stavolta non lo abbandono. Continuo a leggere. Sabato o Domenica lo finisco. Sabato o Domenica chiudo il cerchio verso il giorno dell'indipendenza. E che cazzo, e tra qualche mese finisco pure la trilogia con Lo Stato delle Cose.

Il giorno dell'Indipendenza s'era fatto due vite. Ed alla fine era sopravvissuto. Un po' come la mia amata maglietta con la birra che fa LOADING, comprata nella vita precedente in un negozio brasiliano, diventata feticcio per mesi, poi nascosta nella Scatola del Dolore e poi ricomparsa ed adesso usata come pigiama. Sta bene con i boxer rossi. Anche lei ha attraversato due vite. Come me.

Ad ogni modo, Il giorno dell'Indipendenza sta vicino al mio letto. Ho messo quasi un'ora per scrivere il post.

domenica 19 maggio 2013

Come un venerdì sera (non) uccisi un mito




La costante della mia vita, dall'adolescenza in poi era stata quella (non che mi ritenga molto originale eh, appuro solo il fatto) d'aver sempre avuto idoli morti. Non lo facevo apposta: di qualcuno sapevo sin dall'inizio fosse passato a miglior vita, ma di altri no, e la delusione quando andavo a cercare la biografia (internet non c'era [non c'era a casa mia insomma], parliamo anche di fine anni '90) e leggevo: 'morto a *inserire nome città*, nel 19**' era sempre abbastanza marcata.

Avevo iniziato con Che Guevara (vabbè, lui lo sapevo che era morto), poi ero passato per Salvador Allende Ernico Berlinguer, non tralasciando insospettabili come Truffaut (grande fu il dispiacere, sapendo che era nato negli anni '30 nello scoprire che era morto nel 1984) o Bukowski: cazzo, morto nel 1994, ora, ad un ragazzo di 19 anni che comincia a leggere la sua roba, come può venire in mente fosse già morto da 7-8 anni? C'erano poi stati Primo Levi, John Fante, Ugo Tognazzi (cazzo!), tanto che ad un certo punto mi ero detto che probabilmente:

  • Portavo sfiga e se cominciavo ad ammirare qualcuno, questo moriva;
  • Il fatto che fossero morti, di cui io forse ero a conoscenza, tendeva a renderli migliori ai miei occhi e quindi a farne dei miti.

Fatto sta che abbandonata per decenza e troppa saccenza l'ipotesi di avere un idolo politico in vita (chi al giorno d'oggi?), e rassegnatomi ad amare terribilmente solo scrittori e registi morti, mi resi conto che però c'era una falla nel gioioso sistema di sfiga mortuaria che mi opprimeva: lo sport. 
Nello sport ci sono sì, le repliche, ma (ri)vedere una partita di calcio di 50 anni fa non è proprio come rileggere un libro già pubblicato o un film prodotto tempo prima. Con lo sport 9 volte su 10 il tuo idolo è tale perché lo diventa mentre è in attività e tu segui le sue gesta (insomma, le sue vittorie: se non vince mai nulla è raro diventi davvero un idolo).

Ora io, con mancanza assoluta di originalità, ero diventato un fan enorme del miglior tennista di tutti i tempi, nonché il più amato, ovvero Federer. Certo, ci ero arrivato dopo 2 decenni in cui seguivo il tennis ed ero passato per simpatie travolgenti verso altri tennisti (Agassi, Edberg e Kuerten), ma il risultato finale era stato che come tanti avevo iniziato ad amare Roger (e lo avevo amato ancora di più quando da dominatore assoluto aveva iniziato a perdere un po' più spesso, rendendolo un po' più umano ed imperfetto e quindi ancora più amabile ai miei occhi. Lo adoravo perché era il migliore (anzi, da qualche anno non lo era forse più), ma perdeva, soffriva, pativa alcuni confronti. Non riusciva sempre con la sola a classe a vincere contro i muri di cemento fascisti).

Federer era lì, da anni, stava finendo la carriera (penso ciò avverrà tra il 2015 ed il 2016) e io che l'avevo visto giocare decine (centinaia?) di volte in TV non l'avevo mai visto dal vivo. Dico MAI. E non c'era ragione dato che tutti gli anni veniva a fare il Torneo di Roma e giocava anche a Parigi. Ma io non andavo. Non era un timore reverenziale, non era paura dello shock della realtà (la TV filtra, insomma), non era per i soldi (un biglietto lo beccavi facile con 40€)  non era nulla, nemmeno pigrizia. Era solo idiozia. Aspettavo finisse la carriera per poi potermi dare dell'idiota in pubblico. Dell'incapace e sopratutto del mediocre che senza motivo aveva rinunciato ad un piacere vero ed un ricordo fantastico, senza apparente motivo. Forse solo per potermi dire insoddisfatto, tradito dalle mie stesse aspettative, che IO avevo fatto in modo non fossero state risolte.

Per fortuna tra idea e azione si frappose il fratello di #futuramoglie. 
E per una serie di fortunati eventi (la Sharapova che si era ritirata, #futuramoglie mezza morta già al letto, il venerdì sera senza pioggia, Federer programmato in notturna), mi ero ritrovato al Centrale, al Foro Italico, seduto sui gradini a vedere Federer contro Janowicz. Federer. 
Era lì. Non dico davanti a me, ma a 30 metri da me. In tutto il suo splendore. No, non mi aveva sorriso, non mi aveva visto, aveva giocato bene, ma senza cose meravigliose, ma l'avevo visto. Finalmente avevo visto con i miei occhi qualcosa di vivo che ammiravo. Avevo visto la migrazione di un popolo, Effetto Notte mentre veniva girato, Bukowski ubriaco al bar che dava della puttana alla mia ragazza, Berlinguer a Padova, Allende asserragliato alla Moneda mentre Pinochet rideva freddo, avevo avuto la mia piccola fugace e mediocre epifiania. Ed era stata bella, memorabile e senza stonature.

Federer aveva vinto (6/4 7/6), io ero tornato a casa poco dopo, lei dormiva, e per una volta avevo chiuso gli occhi soddisfatto di me e di quel che era ruotato attorno alla mia vita nella giornata appena morta.
Due giorni dopo avrebbe perso la finale contro Nadal. Ma io non c'ero.

domenica 31 marzo 2013

La Mia Libertà



Non scrivo da 3 mesi. Il lavoro, la mancanza di tempo, le elezioni politiche, i libri, i film, Roma che fa sempre più schifo, il fatto, sopratutto, che questo blog (il muro del pianto) abbia di fatto esaurito la sua funzione terapeutica. Tutto, insomma.

Ma ieri sera è morto Califano. Non ne sono mai stato un fan accanito (troppo romano, troppo semidelinquente, troppa cocaina, troppo apprezzato dalla feccia), ma l'ho ascoltato con piacere negli anni. E una sera, nella mia vita precedente, ottobre 2010, mentre non riuscivo a pensare, ad agire, a fare cose razionali e sensate, ma mi crogiolavo pateticamente in pianti veri e digitali finii per atterrare su La Mia Libertà. Era ossigeno.

No, non perché di fatto potessi rispecchiarmi nelle parole (all'epoca, tra l'altro, avevo avuto meno donne che cellulari), e nemmeno perché il rayban pop e l'aria da macho mi si addicessero (men ché mai in quelle settimane), ma c'erano parole, qua e là, che infondevano un po' di serenità.

Non mi fido di nessuno 
sono rose e crisantemo suono
 e canto la mia libertà.
Se sono triste suono piano,
se sono in forma canto forte
così affronto la mia sorte.

Una donna innamorata 
non ti ama per la vita
ma soltanto finché durerà
e nel giro di due ore
ti ritrovi a camminare
solo con la libertà.

Vivo la vita così alla giornata con quello che da'
sono un' artista e allora mi basta la mia libertà

Ecco, non mi fidavo più di nessuno, era l'artista (lo sapevo solo io) al quale bastava la propria libertà, potevo tornare (iniziare) ad uscire a destra e sinistra con donne mai viste, fare complimenti senza rigore e dare ogni bacio come fosse il primo. Con la soddisfazione di camminare nella notte, solo, tornando a casa, ebbro dell'odore di qualcuna.

E così andai avanti per mese, ascoltando questa canzone, ringraziando Califano di averla scritta, di aver pensato a me, 30 anni prima, a me che vagavo per Monaco senza forze, a me che tornavo in Italia, a me che conoscevo Arianna, Martina e Giada. A me che camminavo al buio, alla ricerca di autobus che non passavano mai.

***

Dopo che conobbi Pavlov, dopo qualche mese, pensai di parlarle della canzone, di mettergliela in un CD, di spiegarle il valore enorme che aveva per me, del fatto che ogni volta che la sentivo scattassero meccanismi pavloviani che mi infondevano un misto di terrore per il 2010 ed euforia per essermi lasciato tutto alle spalle. Poi rinunciai. Non avrebbe apprezzato Califano, non avrebbe amato la canzone, non avrebbe, perché era impossibile, capito il valore intangibile di quelle parole infilate le une dopo le altre.

Una donna innamorata 
non ti ama per la vita
ma soltanto finché durerà
e nel giro di due ore
ti ritrovi a camminare
solo con la libertà. 

domenica 6 gennaio 2013

Zibaldone digitale



Bene, a Belfast bruciavano le strade, stavolta in forma di commedia (le tragedie già c'erano state), io mettevo il sedere sullo squallido treno che da Fiumicino mi riportava verso Roma* (quella non poteva più bruciare: era persino troppo miserabile per attirare le fiamme), tutto tornava alla normalità, alla mediocrità. Si sarebbe ricominciato a fare i sottopagati, trascinandosi giorno dopo giorno come nemmeno le comparse di Metropolis, fino a che qualcuno non avrebbe tagliato il tuo (non) posto di lavoro, in nome dell'arricchimento di qualcun altro e tu, grazie al meraviglioso paese in cui eri costretto a vivere, saresti finito senza soldi, impiego, speranze**. 

Dagli una speranza e faranno qualsiasi cosa, dicevano i grandi padri democratici (o erano i dittatori?), ma a quanto pare per noi non serviva più nemmeno fingere. Si poteva disprezzare apertamente legalità, compassione, decenza e buonsenso. Faceva oramai parlare del carattere nazionale, delle nostre virtù. Sì, potevi ancora ostinarti ad ascoltare The Ballad of Sacco e Vanzetti, leggere i libri di Terzani (Deng Xiaoping aveva lavorato per qualche anno alla Renault), ma era tutta una pia illusione. Non è nemmeno che saresti stato inghiottito a breve: l'opera era già stata compiuta. Fuggire non si sa bene verso dove.

A Berlino la S-Bahn girava che era una meraviglia. Se le mangiava le rotaie, imprimendo attraverso la millimetrica puntualità il tenore delle giornate. Verdi, grigie, rosse, gialle. Nuvola, vetro, respingente. I caratteri gotici dei nomi di alcune stazioni potevano ricordare, a seconda della propria formazione il nazismo e l'incendio del Reichstag, le sofferenze del vecchio Werther o un tipo di scrittura di word. 
A Berlino parlavano tedesco, parlavano a bassa voce, non sporcavano, non mancavano platealmente di rispetto al prossimo. A Berlino sorridevano, lavoravano, la vita costava poco. 
A Berlino, presto, ad imporci nuovi fallimenti sotto l'occhio vigile della neve. A Berlino per prendere il treno che passando per Praga sarebbe arrivato fino a Budapest, per poi ripartire verso Mosca, per poi schizzare verso est, verso l'oriente, verso Pechino, a Berlino per andare a Pechino, la città proibita ed il fumo azzurro del fiume ocra.



Ma più che sotto alla Porta di Brandeburgo (o alla Grande Muraglia), mi trovavo alla stazione Muratella (persino i nomi, apparivano grotteschi a Roma), con lei di fronte a me, e 3 adolescenti di fianco. La lotta quotidiana tra indecenza (ao, io me lavo du volte a settimana, mica so zozzo), volgarità sociale e generosa spinta in avanti dai connotati osceni (vado a fa er cameriere e queo me da 40 euri pe 9 ore npiedi, sattaccarcazzo io nce torno) era senza speranze. 
O meglio, la speranza era po esse che che coe private pior diploma e poi faccio er barista pe 3 mesi pe pagamme a machina su portaportese, oppure me ne vado nfinlandia a Oslo, a affachè, boh mapro un club daaroma e me faccio 1300 euro ar mese, se e chi cazzoteceviene li, bo i finlandesi, ecchecazz gniene frega daa roma?

Di Roma non fregava niente a nessuno, tranquilli. Manco la speranza gli era rimasta, alla città.


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Si trattava di un normale Treno Regionale per pendolari, non previsto quindi per il trasporto di bagagli. Negli anni il prezzo era passato dai 2,50€ (ovvero il costo di 30 km su un convoglio regionale), a 5€ per arrivare a 8,50€. Il treno era sempre rimasto esattamente lo stesso, solo che s'era pensato che dato che chi arrivava all'aeroporto era costretto a prenderlo (l'alternativa era un secondo treno dal costo di 15€ o un taxi dal costo di 48€) si poteva approfittare della situazione. I treni erano sporchi, pieni di graffiti, degradati, puzzolenti. 



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La situazione del mercato del lavoro si era negli anni degradata, in Italia. Erano sorti una serie di forme di collaborazione che non prevedevano tutele per il lavoratore, né economiche (senza ferie pagate, tredicesima, quattordicesima, anzianità, livello) né contrattuale (potevi essere mandato a casa dopo 1-3-6-12 mesi, senza alcuna forma di giustificazione). Inutile dire che la maggior parte dei lavoratori non pubblici godeva di questi nuovi tipi di rapporti.

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