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giovedì 29 marzo 2012

Russendisko


Peripezie di un moscovita appena trasferitosi in Germania. Dall'incontro con la cultura tedesca, alla ricerca di un lavoro, passando per i rapporti con la comunità russa.

 Kaminer è un ebreo russo non praticante che all'inizio degli anni '90 emigra nella Berlino post DDR, ma ancora non del tutto Federale. La sua Germania è l'incontro tra il postcomunismo, l'efficienza teutonica ed il mix culturale dei suoi immigrati (tra vietnamiti, sudamericani e francesi, è strano che manchino gli italiani, anche se l'autore ci regala un divertente passaggio su un suo viaggio a Roma). Perché è venuto in Germania? Lo ha fatto, come dice lui, per curiosità, perché a dire il vero, quando si trova a dover compilare il "mitico" modulo per la richiesta della cittadinanza, alla voce: "perché vuole diventare cittadino tedesco?" non sa cosa rispondere. Non lo sa, perché di trova in Germania da sbandato, alla volta cinico e senza punti di riferimento, investito dalla vitalità della comunità russa locale che unisce furbizia all'italiana ed ingenuità da terzo mondo (ops: secondo, è il caso di dirlo).

I Russi credono di essere più scaltri degli sciocchi tedeschi e reagiscono a modo loro ai tentativi di naturalizzazione culturale prima che burocratica. E così Kaminer ci regala una serie di bozzetti sui personaggi più disparati, alle prese con un mondo tedesco paradisiaco ed irrimediabilmente grottesco. In questo quadro, le riprese del film Stalingrado, dove Kaminer è chiamato a fare da comparsa, l'anedetto sulle zanzare di Berlino o quello del test di tedesco assumono un valore che trascende la mera fattualità.

Non tutti i bozzetti sembrano legarsi tra di loro, ma il risultato complessivo è un affresco tragicomico e malinconico, ed uno sguardo a tratti spietato e compassionevole sui propri concittadini.

Il testo si legge in 3 ore, e risente un po' della traduzione: vanno infatti perduti una serie di giochi di parole e neolinguismi che Kaminier effettua col suo tedesco zoppicante.

Voto 6.5

venerdì 23 marzo 2012

Una serata a Tolosa



Aveva appena ucciso tre bambini - uno puntandogli direttamente la canna della pistola contro la tempia, poi aveva premuto il grilletto e via, una vita di meno - e s'era rintanato in casa. Il fratello e la madre arrestati, s'era richiuso nel suo squallido appartamento di periferia - la grande integration française - e aveva aspettato lo venissero a cercare. 

Fuori c'erano centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa, teste di cuoio, fucili, pistole, e la stampa che raccontava tutto in diretta e milioni di francesi incollati davanti alla tv, utenti che su internet seguivano la diretta, opinionisti del cazzo che erano già comparsi a dire la loro, senza avere alcuna cognizione di causa in nulla. Lui era il mostro, quello che aveva ammazzato tre militari, e tre bambini che non avevano altra colpa che l'essersi trovati lì quella mattina. Oltre al fatto, ovviamente, di essere ebrei.

Il mostro andava ucciso, impalato, divelto, mostrato al pubblico ludibrio. Che giustizia sia fatta. Che il cane venga abbattuto. Un essere simile non merita la vita, cosa aspettate ad entrare ad uccidere quel porco, va lanciato un messaggio esemplare alla comunità internazionale, chi se la prende con i bambini non merita di respirare, sopprimiamo l'individuo indegno, come è possibile che possa ancora girare indisturbato quel maiale, che qualcuno prenda provvedimenti, se non lo fate voi ci penseremo noi.

Lui, farneticava roba sull'estremismo islamico, la Palestina, il morire da martire. Mischiava film d'azione hollywoodiani, retorica religiosa da quattro soldi, il prontuario del sacrificato e odio senza ragione. Ed era solo nel suo squallido bagno di Tolosa, con le armi in mano, ad agire oramai per riflesso involontario, interpretando una parte che aveva scavalcato la sua umanità. Non era più lui, ma il suo personaggio.

Allora i poliziotti erano entrati, avevano sparato, e lui era morto, gettandosi dalla finestra. Un bastardo in meno, uno schifoso è morto, l'assassino dei bambini è stato ucciso per fortuna. Non una lacrima per una vita in meno, un ragazzo che se ne andava (ci aveva lasciato probabilmente anni fa), un volgare assassino antisemita che decedeva.

Perché aveva 24 anni lui, gli avevano probabilmente fatto il lavaggio del cervello, s'era ritrovato probabilmente circondato dall'ostilità, e aveva mollato. Era diventato un mostro, razzista, fanatico ed antisemita. Aveva ucciso dei bambini, solo perché erano ebrei. E non c'era nulla da perdonare, non era possibile. Ma provare pena, per lui, sì. Provare pena per il ragazzo terrorizzato che aveva ceduto a chissà quali pressioni, e s'era inventato il ruolo ridicolo ad atroce del giustiziere, sì.

E alla fine potevi piangere anche per lui, oltre che per i bambini. Per quando orribile fosse associarli nella stessa lacrima. E allora ne avresti versato due ben distinte.

venerdì 16 marzo 2012

Passaporto all'iraniana



Una scrittrice iraniana, che vive da decenni in Francia, si trova a dover rinnovare il proprio passaporto (iraniano) a Teheran. Le cose sono destinate ad essere tutt'altro che facili.

È strano leggere oggigiorno qualcosa di comico ambientato in Iran. Eppure Passaporto all'iraniana è stato scritto solo 5 anni fa, quando Ahmadinejād era già presidente della Repubblica Islamica e la rivoluzione già compiuta da decenni. Malgrado le leggi islamiche facciano da contorno alle peripezie assurde e parossistiche della protagonista, si respira un'aria leggera, fresca, e le vicende assumono un tono quasi grottesco. 

Rinnovare il passaporto a Teheran diventa un'impresa eroica, tra burocrazia improduttiva, schemi (il)logici kafkiani, e consuetudini che appaiono senza senso agli occhi di un occidentale. Eppure. 
Eppure c'è una grandiosa umanità dietro a tutti i personaggi del libro, un'umanità antica, a volte ridicola, ma sempre sincera. In bilico tra corruzione, abnegazione, incapacità e millanteria, tutti cercano di dare una mano a Nahal, nella sua ricerca di rinnovo del passaporto. L'autrice posa così uno sguardo compassionevole ed ironico, ma mai senza rispetto, per i fotografi tuttofare, i medici che si improvvisano esperti di marketing, ed i tassisti dalle mille professioni. Tutti, anche i più umili mantengono una propria dignità e cercano di dare una mano, in modo a volte sincero, ed altre interessato. 

Tajadod non giudica, si limita ad osservare la situazione divertita e disperata a seconda dei fatti. Quando cerca di spiegare al marito le proprie peripezie, lui non può far altro che sbruffare: "non capirò mai questo paese". No, l'Iran, con le sue mille contraddizioni rimane incomprensibile agli occhi degli europei: l'onnipresente ta'orof (ovvero la trattativa che si intavola al momento del pagamento perché nessuno accetta, direttamente, di ricevere denaro per le proprie prestazioni), le procedure burocratiche senza senso, l'eterno traffico di Teheran che richiede ore per attraversare la città in taxi ed un popolo giovane che si dibatte tra fondamentalismo religioso e voglia di parabole e borsette all'italiana: tutto può apparire senza senso se non s'è intrisi di cultura del posto.

Leggere Tajadod diventa allora un esercizio non tanto finalizzato alla comprensione dell'Iran quanto piuttosto al cogliere aneddoti, spunti ed immagini su un paese lontano non solo geograficamente. Il tutto corredato da una comicità fine ed a tratti irresistibile.

mercoledì 14 marzo 2012

The Hunter



Appena uscito di galera, uomo di mezz'età cerca di tornare alla normalità, tra il lavoro notturno in fabbrica e la sua famiglia. Quando la moglie viene uccisa per caso durante gli scontri del 2009, perde la testa.

C'è un po' di tutto nel film di Pitts: omaggi al cinema indipendente americano degli anni '70, rispetto per la tradizione iraniana (scene lente, contemplative, con pochi dialoghi e molta atmosfera), occhiolino verso Rambo e buone intuizioni personali.

Se la prima parte ambientata in una Teheran industriale, fredda, meccanica ed assolata non manca di fascino, la seconda nei boschi è quella più politica e sottile, dove il confine tra il thriller e la denuncia contro il regime si fa più labile. Il paese ha perso non solo credibilità ed onestà, ma persino la bussola: è impossibile non cogliere il peregrinare senza meta nei boschi dei personaggi come una metafora dell'intera nazione. L'Iran va alla deriva, nessuno sa cosa fare e dove andare. Ed allora, le morti del film, perdono la loro apparente casualità (nessuna delle persone uccise è stata uccisa per motivi ben precisi), per diventare invece l'emblema della perdita di certezze dei protagonisti. E della società intera. Rimane la corruzione e l'atroce impersonalità del potere.

Film cupo, oscuro, avvolto tra una metropoli disumana e la nebbia senza fine dei boschi, The Hunter più che un monito pare un epitaffio.


Voto 6.5/10

sabato 10 marzo 2012

Miracolo a Le Havre



Lustrascarpe di Le Havre si trova ad aiutare un ragazzino africano (clandestino) nei suoi progetti di fuga per Londra. Intanto sua moglie è all'ospedale per un cancro. Non tutto è facile. Ma neppure difficile.

Il titolo italiano, che aggiunge "miracolo" a quello originale è forse più azzeccato: siamo davvero di fronte ad un miracolo. I cittadini, tranne qualche eccezione (Jean Pierre Leaud, enfant prodige di Truffaut, ora ridotto ad interpretare un  vecchio 70enne delatore) si aiutano tra di loro, la polizia è umana e compassionevole, i tumori devastanti si placano, le mogli tornano dai propri mariti anche dopo le peggiori liti e tutto sembra a portata di mano. E così, ogni cosa inverosimile sembra trovare posto e soluzione nella sinfonia di Kaurismäki.

André Wilms è uno splendido protagonista che non può non ricordare, almeno fisicamente Charles Bukowski,e che non perde mai la propria dignità, ed anzi, ricorda che tutti, anche gli ultimi, hanno una loro ragione d'essere e possono sempre rivelarsi utili per gli altri.

Kaurismäki confeziona un film alla vola lento e piacevole, melodrammatico e comico, neorealista e fantastico, dove tutto ha fascino senza mai essere di maniera. Certo, il buonismo fiabesco e malinconico del film potrà aver irritato i cinici e quelli che apprezzano solo film pseudo filosofici alla Faust, ma è così bello ad appagante assistere ogni tanto ad un miracolo vero ed (in)aspettato: un lieto fine sentito.


Voto 7/10

Ps

Bello il rock nordico di alcune canzoni, ricorda lo splendido L'uomo senza passato di una decina di anni fa.
E com'è bella ed affascinate Le Havre.

lunedì 5 marzo 2012

Nel pomeriggio dei Sentieri Sbagliati


Nel pomeriggio dei Rumori Sbagliati c'erano da fare tante cose. Finire il lavoro che ti era stato assegnato, e che avevi portato avanti con cura, disinteresse e totale mancanza di entusiasmo. Leggere un noiosissimo saggio di David Foster Wallace, pieno di intuizioni folgoranti. Finire di vedere Luther, che avevi iniziato 50 giorni prima con entusiasmo ed ora giaceva lì, inoffensivo ed inodore.


Nello stesso pomeriggio dei Sapori Sbagliati c'erano scadenze di vita da rispettare: trovare un lavoro decente, rimediare a qualche errore (in)estetico del passato, rispondere a mail inutili con formule altrettanto inutili, cercare soluzioni per problemi che ancora non s'erano posti. E ancora: cancellare vecchi blog (previo averne scaricato i testi) che oramai non riflettevano (quasi) più niente delle tue idee e dei tuoi stati d'animo, trovarti a sentire la mancanza della tua ragazza (malgrado l'avessi vista fino a poche ore prima), non tanto per una ragione specifico-fattuale quanto per quella complessa (e semplice) sensazione di serenità che riusciva a trasmetterti, pur sedendo zitta su una sedia da giardino posta nella tua cameretta mentre tu guardavi roba idiota su internet.

Nel pomeriggio dei Dolori Sbagliati la testa doleva ed a nulla servivano le tue aspirine greche (sì: le avevi comprate ad Atene, in mezzo al caos, pagandole 1,80 €, con grande soddisfazione: clinica, emotiva ed economica),  il collo era semi-bloccato per una sorta di combo divina, e realmente, desideravi di essere ovunque tranne che al centro della tua esistenza. Poi però il pomeriggio diventava anche quello delle Parole Sbagliate: notavi infatti con disgusto che nella stessa frase avevi usato i termini: desiderio, centro ed esistenza, e non potevi fare a meno di esorcizzare la frase stessa, aggiungendone un'altra, questa, per l'appunto, in cui ti dicevi scandalizzato dalle tue stesse parole.

La finestra era trasparente ed invitante, ma per ora avevi ancora da fare. Niente che meritasse menzione, a dire il vero.

domenica 4 marzo 2012

Frantic



Al chirurgo americano in visita a Parigi viene rapita la moglie, senza apparente motivo. Dovrà ritrovarla, solo.

Rivedere a distanza di 25 anni questa perla di Polanski è una vera gioia. Il tema hitchcockiano dell'uomo coinvolto senza colpe in intrighi e gialli è qui riproposto senza sbavature, e con maestria. Ford, frantic (frenetico, convulso) si ritrova ad affrontare il rapimento della moglie tra l'avversità delle istituzioni francesi, le difficoltà della lingua e l'ostracismo della propria ambasciata, nella Parigi  anni '80, alla volta ostile ed affascinante (finalmente lontana dai cliché turistici).
Emmanuelle Seigner alla prima interpretazione di peso è torva ed affascinante (Polanski ne è forse già innamorato: vedere con quanto sensualità viene girata la scena del ballo), e Ford era allora una vera garanzia.
Regia di estrema qualità, che non perde mai il filo della narrazione e filma ogni particolare (valigie, telefoni, birre e scatole di fiammiferi) come fosse un atto d'amore. Frantic, malgrado sia di produzione americana, diventa così un giallo europeo, dove contano più le ambientazioni, i dialoghi non svoltisi e gli sbigottimenti interiori, rispetto agli inseguimenti automobilistici e le sparatorie.
Primi 40 minuti, quando lo spaesamento del protagonista coincide ed aderisce totalmente con quello dello spettatore, davvero grandiosi. Seconda parte con qualche incongruenza, ma godibile.

Voto: 8=/10



Ps:

Grandissima colonna sonora firmata da Morricone. Tra le più belle e sconosciute.




venerdì 2 marzo 2012

Una serata con la GF - The Driver


Avevamo appena finito di cenare all'Eur, in un ristorante nel quale coatti rifatti si davano un'aria da gran signori. C'erano tutti i soliti casi umani: macellai evasori, ragazzini inopportuni, madri di famiglia sfatte che si prendevano per gran signore, turisti giapponesi che bevavano vino da 4 soldi (lo avrebbero però pagato come Château Lafite) e 50enni in carriera che offrivano cene a donne di mezz'età annoiate, nella speranza di beccare un pelo di sgnacchera qualche minuto dopo, in macchina e usando un condom che aveva visto giorni migliori.
Non mancavano nemmeno camerieri di borgata con elegante camicia bianca, il padrone del locale - capelli neri lunghi, grassi ed ingelatinati, che pareva un pappone di un film riuscito male degli anni '70 - e una smandrupata 40enne a prendere le ordinazioni, in perenne bilico tra usare il lei ed il voi, che però ti guardava con disprezzo perché non eri né abbastanza boro, né abbastanza ricco. Non rientravi nel loro target. Nemmeno loro nel mio, ed infatti non gli avevo lasciato nemmeno 10 centesimi di mancia: tanto perché le cose fossero chiare.

A cena finita avevo accettato con entusiasmo il passaggio che la girlfriend mi offriva per la Stazione Tiburtina. Del resto ero a piedi: quindi era un'offerta da accettare volente o nolente. E poi lei era così carina che sarebbe stato delittuoso non passare qualche minuto in più insieme, metterle una mano sulle cosce con fare innocente o darle un bacio sulla guancia ogni tre incroci. Purtroppo non avevo calcolato che la GF aveva cambiato il suo nome nei giorni precedenti: ora era The Driver. E avrei presto scoperto il perché.

Dapprima eravamo finiti, dio solo sa come, in un parcheggio dell' Eur, mezzo disabitato ma non particolarmente fatiscente (le considerazioni erano state: "mi pare ok per trombarci" - "sì, infatti,  ma al coito stradale ci pensiamo la prossima volta"), e poi, una volta uscitivi con fatica e 12 manovre, ci eravamo ritrovati a fare il giro della rotonda attorno alla Piramide Cestia un paio di volte - "divertente, dai famolo pe' la terza volta," - così per vedere che emozione si provasse nel prendere costantemente la strada sbagliata. Io avevo un autobus da prendere entro 20 minuti, ma la cosa cosa sembrava non avesse più importanza: la missione era fallita nello stesso momento in cui avevamo acceso il motore della sua Clio blu.

Ma il destino quando decide di giocare le proprie carte per bene non perdona, men ché mai uno stronzetto come me, e le peripezie non erano destinate ed esaurissi così rapidamente. The Driver - GF voleva dimostrarmi un altro po' la sua bravura al volante. Mancavano 10 minuti alla partenza del fatidico autobus ma lei si ostinava col dolcezza innamorata a fermarsi ad ogni semaforo: anzi riusciva a rallentare quando il verde era ancora intenso come manco durante una rivolta iraniana e ad inchiodare al momento dell'arrivo del fedifrago arancione. Del rosso non ne parliamo. Ma ci si passava su, in modo quasi divertito: volevo vedere fino a dove ci avrebbe portato il talento del Driver. E poi era così bella mentre guardava di fronte a sé, come fosse Alain Prost in un duello con nessuno. Come fosse la padrona sarcastica del proprio futuro. Il problema era che mentre la novella pilota di Formula 1 si dilettava con il tempo, il mio scadeva ed ero sempre più destinato a perdere l'autobus.

E così fu. Pazienza, ne avevo uno 40 minuti dopo, occorreva solo trovare lo svincolo giusto. E dopo 5 minuti lo trovammo. Solo che The Driver aveva deciso che non le piaceva come posto dove lasciarmi  -"ti voglio lasciare davanti alla fermata" - "tranquilla, sono solo 50 metri da fare" - "no no, adesso cerchiamo quello giusto, che voglio impararmi la strada". E allora ripartimmo, perché dovevamo trovare il Sacro Graal, ops, l'uscita giusta. Ma Roma è terra d'insidie, imprecisioni ed avvenimenti inaspettati, così una volta immessi di nuovo sulla Tiburtina alla ricerca del cartello beatificatore che ci avrebbe portati alla meta, ci accorgemmo che la salvezza non era poi così vicina. O forse me ne accorsi solo io.
Prendeva sempre più piede la teoria per la quale sarebbe stato meglio trombare nel parcheggio piuttosto che infilarsi per 2 ore sulle consolari romane alla ricerca di qualcosa che non c'era. Ma l'unica cosa che sarebbe destinata a diventare dura quella sera era la testa di The Driver, l'adorabile fanciulla. Così, appurato che il primo svincolo per la Stazione Tiburtina risultava chiuso, il secondo non si trovava, si decise, o meglio: lei lo decise, di inventare il terzo. Sebbene la maggior parte dei guidatori non penserebbero facilmente cheun cartello recante la dicitura "San Giovanni" voglia dire "Svincolo segreto per Roma Tiburtina", lei, che è donna brillante e piena di inventiva, lo credette. E così, in un batter d'occhio ci ritrovammo sul raccordo: davanti a noi ora i cartelli indicavano Firenze, Napoli, New York. la fine era vicina. A nulla serviva perdere la calma: The Driver era mortificata per il suo errore, ma come la fenice rinasce dalle proprie ceneri, lei era convinta che avrebbe improvvisamente trovato la via segreta per la Stazione e mi avrebbe finalmente portato a destinazione.

Non fu così. Ci perdemmo, sprofondando nella periferia romana, annaspando sulla Serenissima e toccando zone ignote del Casilino. E anche quell'autobus partì senza di me. Mossa a pietà dal mio silenzio sempre più inquieto, The Driver decise che per quella sera gli esperimenti ed i progetti erano finiti: prese infatti la grave decisione, che dopotutto lasciami a 50 metri dalla fermata potesse essere un compromesso accettabile, quando l'alternativa era oramai diventata perdere l'ultimo autobus e finire la notte a dormire per terra in stazione, tra barboni suadenti ed il piscio di cane malato.
Arrivammo, anzi tornammo così al luogo che ci aveva già visto 1 ora prima pieni di speranze. The Driver ora sorrideva, ce l'aveva fatta: mi aveva portato alla meta. Ci demmo un bacio, anche abbastanza appassionato (con la lingua, insomma) e mi avviai verso la fermata.

Ora iniziava il viaggio di ritorno.


giovedì 1 marzo 2012

Un ricordo legato a Lucio Dalla



Siamo cresciuti senza soldi. Eravamo piccoli negli anni '80, quando un oggetto nuovo portato in casa - uno che non fosse strettamente necessario - era una novità da festeggiare, che destava meraviglia e stupore.
E ricordo quando mio padre riportò una sera DallAmeriCaruso. Era costato 40.000 Lire - una piccola fortuna - ed in casa, per una sera, regnò l'armonia. Per una sera i miei non litigarono: mio padre troppo felice - o almeno così mi sembrò - per il suo acquisto, mia madre assorta nei suoi pensieri, ma felicemente confusa per il nostro entusiasmo. Io e mia sorella guardammo il CD come fosse una sorta di promessa verso un futuro radioso, e pretendemmo di sentirlo subito.

Ora è tardi, domani c'è scuola, non si può.
No papà, dobbiamo sentirlo ora. Dobbiamo proprio.

Allora mio padre lo aprì - per qualche giorno conservammo anche l'involucro di plastica che racchiudeva il CD, come fosse una reliquia preziosa - ed infilò il disco nel lettore. E fu così che ascoltammo Caruso per 3 ore, mandando sempre indietro la canzone - "dai papà fai bèc, che la vogliamo risentire", fino a che non venne l'ora di andare a dormire. Anche per quella sera era finita. Ma l'eccitazione era troppa, e allora  corsi in cameretta e mi ci chiusi dentro per 5 minuti, canticchiando ancora Caruso, come poteva farlo un bambino di 6 o 7 anni.

L'indomani riascoltammo ancora il CD, e così anche il giorno successivo.

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