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lunedì 28 novembre 2011

Storia d'una serata scandinava - 1



S'erano conosciuti a Tampere, per vie traverse. Lui faceva il veterinario, lei la giornalista. Lei odiava l'aggettivo "complessato", lui odiava un sacco di cose, ma tendeva a dimenticarsele. Avevano bevuto due birre (medie e rosse, lei aveva rimarcato "questa è una birra da donna" lui aveva annuito capendo perfettamente cosa intendesse dire pur essendo incapace di spiegarlo) in un locale dedicato alle Cronache di Narnja - anche in Finlandia erano famose - e s'erano salutati. Lui viveva in Finlandia, ma veniva da una nazione vicina. Lei non ricordava più se fosse islandese o norvegese. Ad ogni modo aveva poco accento e tutto sommato era un bel tipo. L'amico che li aveva presentati aveva ricevuto resoconti fugaci - sì, è stata davvero una bella serata - e non aveva indagato oltremodo. Del resto anche lui aveva un cazzo di vita da portare avanti (era emigrato in Austria anni prima: ora faceva il cuoco in un locale squallido: ma la paga era buona, la sua fidanzata era incantevole ed il cibo gratis: aveva svoltato), e non poteva perdere troppo tempo con loro. E poi tutti dicevano di aver passato belle serate anche se mentre la serata stessa era ancora in totale divenire pensavano solo: "e se mi dessi una enorme martellata sui coglioni? potrei usarla come scusa per andare all'ospedale e quindi levarmi dalla palle. Sì, potrei DAVVERO farlo."
Poi lui andò a finire in Corea per un programma di una qualche finta associazione benefica, qualcosa sulla protezione dei cani; mentre lei scribacchiava articoli pagati 20 euro al pezzo, maturando una certa frustrazione. Non è che fosse particolarmente talentuosa, ma dei 35 giornalisti della Gazzetta di Tampere era una delle poche con un briciolo di fantasia e quella punta di sarcasmo che amava definire "il lubrificante della professione." Ma la battuta, a quanto pare, riscuoteva poco successo. La capivano in pochi e chi la capiva reagiva il più della volte con un imbarazzato sorriso di cortesia - le allusioni sessuali non piacciono a chi odia il sesso - ed un'alzata di spalle.

sabato 26 novembre 2011

Il post del killer sentimentale



Da piccolo pensavo che l'andamento di una coppia si misurasse dal numero di baci scambiati. Senza lingua naturalmente. Guardavo un sacco di serie americane per teenager, dove ragazze bellissime sbaciucchiavano tipi fighi. Allora facevo liste: "a 16 anni voglio aver baciato almeno 10 donne". L'importante era stampare le proprie labbra su quelle della bella ragazza con i capelli castani. E' quello che feci, tra l'altro, anche la prima volta che baciai una tipa, anni dopo. Tra imbarazzo e squallore. Lei non era manco così bella, tra l'altro. E sopratutto mi schiaffò in bocca quella sua orrida lingua ("ma che cazzo sta a fa 'sta matta?"). 

Poi da adolescente pensavo che l'amore si misurasse via sms. Più ne mandavi più le cose andavano bene. Scambi interminabili. Nottate a mandare sms, costavano 200 lire, cazzo. Non che avessi molto da dire, sebbene allora pensassi di sì. Però ricevo risposte. La vita a portata di 160 caratteri. Tutto facile, niente complicazioni. Mai rimanere senza credito. Senza credito finisce l'amore. Senza cellulare finisce il rapporto. Senza campo le arterie non pompano più altro che carbone.

Poi crebbi e pensai che più vedevi una persona più allora la coppia andava a gonfie vele. Usciamo il lunedì, ti passo a prendere dopo la lezione. Ma vediamoci anche martedì, ho un buco tra economia e scienza politica. Facciamo questo. Camminiamo per chilometri senza scambiarci una parola. Ti chiedo la tua opinione. Tu non ne hai una? Fa niente. Le parole sono pericolose. E vediamoci anche domani. Sì, te lo porto il racconto. Quello in cui un uomo ne uccide un altro all'uscita del cinema e lo fa a pezzi e lo butta nella spazzatura, sì, te lo potrei dedicare.

Ma si diventa adulti. Allora bisogna aggiornarsi. Se le cose vanno bene vuol dire che si scopa un sacco. Allora devi trombare, ogni volta che puoi. Anche quando non vuoi. Se lo fai 2 volte a settimana c'è crisi. 3 non va bene. 4 c'è maretta. 5 andava meglio prima. 6 non siamo più quelli di una volta. 7 dimmi cosa ti turba amore. 8 sento che non comunichiamo abbastanza. E via dicendo. Però intanto continuavo a leggere libri. Ad andare al cinema da solo. Finalmente c'era pace. Il momento più bello della giornata era ritrovarsi completamenti soli, in un cinema di periferia.

Poi viene la maturità. E tutto passava attraverso le email. Se scambi mail è ok.  Più le mail sono frequenti più la tipa ci sta. Le mail misurano bene l'intensità. Le mail richiedono sforzo. Le mail richiedono passione. Ricordo nitidamente che in pomeriggio estivo del 2010, mi ritrovai a pensare: " 'sta stronza non mi risponde più alle mail. Non me ne scrive più. Non parliamo più dell'idea di colonialismo europeo, delle trombate fatte e da fare, dei kebab in offerta e dei personaggi inesistenti che amerei conoscere. Cattivo segno, cattivissimo." Ed, infatti, se ne andò. Ma tanto non mi mandava più email. Gone, baby, gone.

Ho avuto anche la fase dei libri scambiati, dei viaggi fatti, delle litigate, dei calzini dello stesso colore, delle opinioni discordanti, delle medesime vedute politiche, delle difformi vedute politiche, del se fa quel che mi piace, e del se fa quel che non mi piace. Ho un sacco di teorie. Le annoto spesso. Ma le consulto poco.

giovedì 24 novembre 2011

Pandora vende merce in saldo


Hai preso il vaso e l'hai aperto. Non volevi farlo, perché aprirlo comporta sempre e comunque problemi. Aprirlo comporta tornare a vecchie abitudini, eternamente ridipinte con vernice nuova e metallizzata. Ma la vernice è così perfetta che tu non pensi più a quella vecchia. No, non dimentichi nulla, non puoi dimenticare, ma non è più davanti a te. Il colore è spartito. Aprirlo porta cose nuove ed odori rimossi, infantili. Porta l'incontrollabile. Porta meraviglia. Porta stupore e novità, per l'appunto non gestibili. Aprirlo vuol  dire che ti cadrà di mano ed i tuoi piedi finiranno sui cocci e cominceranno a sanguinare. Sangue nero e denso. Ma tu non sei la Sirenetta, nessuno troverà sia una storia bellissima. Aprirlo vuol dire che la ragazza tedesca che ti vide piangere sulla SBahn, si sta preparando ad offrirti nuovamente qualcosa da bere. Hai aperto il vaso, lo stai aprendo, ma il vaso pesa, la mole è altissima, incontenibile. Ah certo le tue braccia sono forti, sono temprate, sono resistenti al dolore oramai. Sono talmente resistenti al dolore che lo erano diventate anche al piacere. Ma oramai il vaso t'è stato venduto, dovevi rifiutarne subito l'acquisto, è così che si comporta la gente seria. La gente seria ha paura del vaso, non ci si avvicina. Quando viene offerto, a prezzi bassi, irrisori, la gente rifiuta, fa un sorriso educato, mi piacerebbe tanto, ma ho già una vita noiosa ed equilibrata, senza sussulti.  Il vaso è la tortura che la banalità impone agli sfrontati. Aprire il vaso implica coraggio. Aprire il vaso vuol dire il dolore allo stomaco, che è già cominciato. Vuol dire il battito da preinfarto. Aprire il vaso vuol dire sorridere mentre le labbra si stanno screpolando. Vuol dire che la gente in metro guarderà te e non il contrario. Aprire il vaso vuol dire prepararsi a tenere gli occhi aperti, di notte, a fissare le strade vuote. Aprire il vaso vuol dire aprirlo.

mercoledì 23 novembre 2011

Frammenti di un viaggio in metro


Lui sembrava uno studente iraniano, dissidente, ma ancora fiero del proprio paese. Lei invece pareva tirata fuori dalla Parigi degli anni '70, con quel taglio di capelli, quel viso grazioso e ben delineato e quel vestito elegante e femminista. Erano stanchi. Seduti sui sedili della metro B, direzione Rebibbia. Lei gli si appoggiò contro la spalla, e chiuse gli occhi. Si sentiva finalmente protetta. Lui aveva lo sguardo pensieroso di chi sa di aver fatto la cosa giusta, ma è preso in dinamiche più forti di lui. Nel pomeriggio avevano parlato di Dürrenmatt, della Morale e dell'assurdità del Caso.
Lei lo aveva ascoltato intrigata, lui le aveva raccontato cose con fare innamorato ed appassionato. Si stimavano e quindi tutto veniva trasmesso con la facilità con la quale scorre la 3a birra in una serata triste e violacea. Non avevano soldi, non tanti almeno, eppure pareva che riuscissero ad aggrapparsi al domani con una forza sconosciuta. Erano fiduciosi in modo malinconico e perseverante. Lui era terribilmente attratto dalla spontanea freschezza di lei. Lei dalla risolutezza post-adolescenziale di lui. Non sarebbero tornati in Iran, troppi rischi. Il tepore sporco di Roma per il momento era la migliore soluzione possibile. Nonché l'unica: la scelta è un lusso che non tutti hanno.

Mancavano ancora 3 stazioni. Davanti a loro s'era seduto il ragazzo. Li osservava. Inizialmente il ragazzo che sembrava iraniano pensava che il ragazzo stesse guardando la sua ragazza con fare ammiccante. Invece non era così. Il ragazzo davanti a loro pareva immerso in un'euforia controllata. Sorrideva. Ma in modo sobrio, ragionato, come se ancora mancasse qualcosa. Forse aveva avuto un buon colloquio di lavoro. Forse aveva vinto 100 euro. Forse aveva appena finito di leggere un libro grandioso, tipo Resurrezione di Tolstoj. Forse era uscito con una tipa e tutto era andato come voleva, tranne qualcosa. O forse era solo scemo.
La ragazza che pareva parigina aveva riaperto gli occhi. Aveva dato un bacio sulla guancia del ragazzo che sembrava iraniano. Lui le aveva rivolto uno sguardo che lasciava presagire anni di complicità. E viaggi. L'indomani sarebbero andati al mare, avrebbero portato un telo, e si sarebbero distesi e messi a leggere: lui quel romanzo di Borges che voleva finire entro fine settimana e lei quello di Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, che tanto la stava colpendo. C'era quel racconto sulla prima cosa che non ami in una persona. La divertiva, in un certo senso.
Eccoli, erano arrivati a Monti Tiburtini, dovevano scendere. Il ragazzo di fronte a loro fece un ultimo sorriso. Poi la metro ripartì.
Chissà cosa lo aspettava, il giorno dopo.

giovedì 17 novembre 2011

La tortura


Il treno era sporco, ma non più del solito. Dopo mezz'ora era salito il post-troione. Vestita come una 25enne senza gusto, col grasso che strabordava leggermente. Abito leggermente maculato, in perfetto stile Morta di Fame di Periferia. Truccatissima, come fosse una foca in visita ad un safari. Riuscivo ad ignorarla - l'mp3 serve ad isolarsi dalla melma sociale - ma cominciavo a patire sotto i colpi dello squallore.
Dopo qualche minuto la buzzicona aveva cominciato a sproloquiare al cellulare: non concepiva la nozione di silenzio, di rispetto per l'altrui viaggio, di sobrietà. Si era lanciata in grandi discussioni che avrebbero toccato temi pressanti quali i tampax in offerta, un'amica zoccola che s'era fatta un qualche miserabile - poi me racconti meglio che questi so discorsi da fare di persona non su li mezzi pubblici - , il mutuo che era caro - i politici c'hanno rovinato - , la cena che era da pianificare. Ma contro una sola, ce la potevo ancora fare. Bastava non guardarla mai negli occhi. Come ai tempi del liceo, quando c'era l'interrogazione su Aflieri e Parini e te non ne sapevi un cazzo. Bastava considerarla un essere estraneo. Bastava pensare a quel che avevo fatto 2 anni prima, ed a quello che avrei fato 30 minuti dopo. Sì, considerare il passato ed il futuro, mai il presente. Il presente era il Grande Regno delle Carogne.

Ma alla fermata successiva erano saliti i Cani. Erano 3 idioti, tra i 26 ed i 29 anni, vestiti di nero (uno con orribile cravattino), con dei giubbotti grotteschi che parevano sacchi dell'immondizia - a quanto pare roba cara - , e s'erano seduti di fianco alla buzzicona. Non so quanto avrei potuto reggere.
Per ora gli Snow Patrol ancora mi proteggevano, ma quanto sarebbe durata la resistenza? Stalingrado non cadde, vero, ma Troia sì. E quante altre. Quindi la canzone finì, e venne il tempo della Grande Resa dei Conti.

C'è ai tempi mia i regazzini erano diversi
Nche senso
Che voglio dì, ae 4 c'era a fila p'anna gioca' a pallone, mica come mo che s'arencoglioniscono davanti alla play, ar pc, ma come vengono su? S'annava ngiro prima, a pia per culo i froci, a fa na partitella e fa i cretini co e regazze
C'hai popo raggione, so mongoloidi quelli de 'mo
Ma poi er rispetto, e cose, i valori, nc'è più ncazzo ao
E come no, nc'è più ncazzo
Ma poi escono a sera, cioè pia mi sorella no
Cheffa?
L'artra sera esce, ao mi sorella c'ha 23 anni eh, na regazzina, mbè esce e torna alle 3. Alle 3 te rendi conto? Cioè che poi stava co l'amiche, capito? E mi padre a aspettalla sveglio.
Senza n'omo voi di'?
Senza! Cioè pe me se esci co l'omo tuo e a me me pare uno regolare, al limite poi pure 'sci de notte, ma non esiste che vai da sola. A carci nbocca te pio. Mi madre, quann'era giovane alle 8, a casa doveva sta, capito? N'esisteva che uscivi a sera. L'omini pure pure, ma e donne no. Che è sta robba che escono da sole? Ma se era mi fia da mo che l'avevo presa a carci nbocca, che voi te, usci a sera da sola? me rpesenti er tuo regazzo e forse te ce manno, a bbella.
Ao, ma non c'è più rispetto, nc'è più decenza.  L'altro giorno hanno arrestato er prete da a parrocchia mia, toccava i regazzini sto stronzo, scto nfmamone.
Che merda, me fanno schifo scti pedofili
Ao, io ar marescialletto der paese gl'ho detto "o l'ammazzate voi, o la giustizia del carcere, non me o fate più rivede' davanti che l'ammazzo a scto bastardo, sto porcone"
Hai fatto bene, quella è gente che nmerita da vive
Oggi nte più fida de nessuno, ao gli avevo aperto e porte de casa mia a scto nfamone, quello se veniva a pia' er caffè, hai capito? Scta merda. Hai capito che toccava i regazzini?
Ma poi è pe' questo che le regazze non ponno gira' senz'omo, non ponno
Sai che è, è che se persi popo i valori. Dell'Onesta. Del Rispetto, Oggigiorno ognuno fa come cazzo se pare. Ma le senti le cose? Quello che ammazza a nipote, quello che se fa la figlia, tutti 'sti froci che girano, ao ma prima mica era così. Prima a gente era sana, seria, umile.
Oggi so tutte merde, pieno de sti stranieri, le checche, li pedofili
E' cambiato tutto, tutto
Sola na cosa è rimasta come prima, la Fica - pausa drammatica, tono di voce che si alza -
Quella è sempre la stessa
Che dio la benedica, la fica.



La buzzicona sembrava interessatissima ai discorsi dei tre saggi. Il concetto di fica, con la c, quindi più volgare, sembrava appassionarla. Si era resa conto, in un momento di epifania, di avercela anche lei la FICA, e non quella fine, da film d'essai francese con la G, no no: lei ce l'aveva con la C.
Li guardava, con fare insistente - la buzzicona non conosceva le regole dell'educazione che ti impongono di non fissare in modo insistente qualcuno -  e sognava di potere intervenire con Fare Maturo e poter parlare dell'Alto della Sua Esperienza. Ma non ancora non era venuto il suo turno. Io contavo le stazioni che mancavano all'arrivo. In 15 minuti sarei stato libero. Ma i tre filosofi non avevano finito.

Mo io ce stò da n'anno co a regazza mia, io a amo eh, na cifra, ma lei deve imparà er rispetto.
Che voi di?
Lei ch'ha 20 anni, io 29, è na pischelletta, e io gl'ho già detto che non poteva perde tempo appresso ae cazzate sua, io so n'omo maturo, non posso sta appresso ae regazzine, capito?
Regolare
Cioè, pe ditte, lei viene a casa mia, se ferma pure a dormi' - che pe mi madre è un sacrificio falla dormi' a casa, so artre generazioni, nun è na cosa tanto ovvia - se ferma a dormì e a mattina mica s'alza pe prima pe anda a salutalla a mi madre, no. Tu glie devi rispetto a mi madre, capito? Tu a matina devi andalla a salutare. Nun me frega ncazzo che te sta sul cazzo, fai finta. Poi nprivato me poi pure di "ao tu madre me sta sur cazzo", ma davanti glie devi rispetto a quea donna, hai capito?
Se non c'è rispetto pe a madre e cose nponno anda' avanti
Poi pe ditte', sta a pranzo a casa mia, ce sta a birrà de mi padre in tavola, e lei se la serve. Capito? Se versa la bira de mi padre. Che mi padre me dice che a bira è a sua, se l'è comprata coi sacrifici e pe noi regazzini al limite ce sta a coca cola. Non è che noi potemo beve l'alco davanti ai genitori, ma che rispetto è? E invece lei che fa? Se versa la birra, na volta, du volte, ma che modo è? Che te metti a beve a birra a casa mia?
Le regazzine de mo ncapiscono ncazzo. Cioè co rispetto parlando eh, non voglio insultalla alla regazza tua
Sì sì t'ho capito, tranquillo. No e regazzine de mo so senza rispetto.

Avevano chiesto l'ora alla buzzicona e lei aveva colto al balzo per intervenire.

So e 4 e mezza ragazzi
Grazie signo'
Regazzi però dovete esse più rispettosi dee vostre regazze
Signò ma io a amo alla pischella mia, è solo che se deve mparà er rispetto
Eh, ma che ami, ama' è na parola che non o sai er significato, dopo 10 anni, dopo 20 anni poi di d'ama quarcuno, mica prima. Te serve l'esperienza della vita e dell'amore per dillo.
Ma che non o so? però me sento d'amalla a questa qua.
Ma da quando ce stai?
E' quasi n'anno signò, tanto
Ma allora devi accettare che cresca
Ma io o accetto, solo che nposso perde tempo co e stronzate de na ragazzina da 20 anni
Se a ami o devi da fa. Sei fortunato che hai beccato na brava regazza, che queste de mo sto tutte zoccolette, aprono e cosce pe' tutti - scusate a vorgarità -, non c'è più rispetto, pe i valori, pe e cose de na' volta.
E che non o so? Tutte tsozze, noi ce giocamo eh, non dico no, perché comunque ce piace da scopa' però so tsozze, non so mica come ai tempi de mi madre
Eh a quei tempi, qurcuna zozza c'era, ndico de no, ma a maggior parte erano brave ragazze, co valori, me capisci?
Eccerto, lì ce se poteva fida' dea proprio donna.
Ma io de a mi regazza me fido eh, solo che n'è che me poi di che esci, va a balla' senza de me, nesiste, semo na coppia ste cose e dovemo  fa nseme, poi, se vuoi a tua libertà, d'annà a ballà quanno cazzo te pare e co chi voi, devi da esse singol, dico male?
Dici bene, io n'è che te voglio di' che se devono sposa tutti eh, ma solo che ce deve da sta er rispetto
Eh sign..

Ma io m'ero alzato. Manca ancora una fermata ma m'ero avvicinato alle porte. Due cinesi stavano parlando. Di cose, probabilmente, interessantissime, tipo le troie cinesi. Ma non potevo capirli. Che sfortuna.

Arrivai all'appuntamento con 3 minuti di anticipo. Ma ne aspettai altri 25.


venerdì 11 novembre 2011

Snow Patrol - Just Say Yes



Insomma tornavo a casa. Camminavo, ed era notte. La città era vuota, non insolitamente: tutti a consumare orgasmi tiepidi nei loro appartamenti ultraperiferici acquistati con mutuo 35ennale con rata fissa a 780 euro al mese, credendo di vivere un amore normale (quindi, grande), finché l'atto di venire non rischiarava per qualche minuto le loro stanche menti: chi è quest'essere che giace nudo davanti a me e perché deve rovinarmi la vista?

Tornavo a casa, scendevo per gli orridi corridoi della metro B (dava un senso di sorpassato sin da quando l'avevano rinnovata sul finire degli anni '80, ma era troppo brutta per essere considerata vintage), e prendevo il primo convoglio. Il mio vagone era totalmente vuoto, il ché conferiva una certa eroicità malinconica al mio viaggio. Leggevo il primo capitolo di un libro di DFW, scoprendomi oramai drogato d'uno stile a volte noioso, ma intinto di originalità. Leggevo la dedica del libro sorridendo in modo maturo e rattristato. Le stazioni scorrevano in modo imperfetto. Quando ero piccolo chiamavo Pollicino la stazione metro Policlinico. E pensavo che lo stato italiano dopotutto fosse stato davvero gentile ad intitolare una fermata al protagonista di un racconto per bambini. Mi sbagliavo sia sul nome che sullo stato italiano, ma me ne sarei accorto solo dopo alcuni anni, molte delusioni, ed alcuni freddi baci.

Tornavo a casa, salivo le scale, accendevo il computer, bevevo una birra piccola, rimanevo in boxer, mi lavavo i denti, guardavo il computer, toglievo polvere inesistente dalla copertina rigida del libro di DFW, e venivo a conoscenza dell'esistenza di Just say yes, degli Snow Patrol. In un certo senso trovavo la scoperta un po' beffarda perché sarebbe stata la canzone perfetta da ascoltare in metro, 30 minuti prima, al posto di A mano a mano e Money for nothing. Perché le parole, in un certo senso, nemmeno poi tanto oscuro (chi l'ha detto che i momenti di epifania siano per forza frutto di astruse ed incredibili situazioni?), rivelavano un po' uno stato d'animo (comune, quindi grandioso) che era durato dal momento in cui ero entrato nel convoglio (quelli vecchi, rovinati dai writer, gli animali incivili, insomma) a quello in cui erano partite le note. La musica poi era terminata, avevo spento il Pc, e m'ero limitato a riaprire il libro di DFW.
Scorreva bene.

giovedì 10 novembre 2011

L'implacabile caduta dei granelli



Sono stressato ultimamente. No, non stressato, ma sento la pressione.
E perché?
Perché non ho tempo, non ho più tempo. Il tempo sta scadendo.

No, non ero Carlito Brigante, non uscivo di galera e non avevo la mala di New York alle costole, il procuratore generale infilato nelle mutande, ed un avvocato tossicomane fuori di testa. No.
Ma il tempo stava scadendo uguale. E non potevo fare nulla di fretta. Il tempo scorreva, ogni giornata portava con sé il dramma e la grandezza della vicina ineluttabilità delle scadenze, ed ogni piccolo granello di sabbia che mi cadeva sul capo, assumeva le forma di una vecchia e mai dimenticata tortura cinese.

Il tempo scadeva e non c'erano decisioni da prendere. Non c'erano aut aut. Non c'erano ultimatum imposti da un vecchio capitano nazista*, e non c'erano debiti da pagare entro il fine settimana. Non c'era nulla di pressante, se non l'orribile percezione (non era una percezione, bensì un fatto) che il tempo stesse terminando. Il lavoro fuori, il maledetto paese che ti mandava a 2000 km da casa tua per campare in modo semi-decente.

Allora, la mattina, ci si ritrovava (il tempo che scorreva implicava anche il passaggio dal parlare in prima persona ad una più impersonale prima plurale) a leggere DFW (cos'avrà voluto dire in quel racconto?), ad ascoltare la colonna sonora di Drive (pur non sentendosi affatto un Real Hero, o forse sì?) ed a sorridere nel vedere sul monitor: I won't be ok and I won't pretend I am, So just tell me today and take my hand, Please take my hand.

Ma il tempo continuava  a passare.




* Faceva parte della Wehrmacht e non aveva aderito in modo davvero convinto al nazismo. Durante gli anni dell'ascesa e del consolidamento del potere di Hitler si era limitato a pensare che le cose andassero un po' meglio rispetto a prima, e che finalmente lui e la moglie avevano i soldi per poter ridipingere il vecchio appartamento in Goethestraße ereditato dai genitori di lei. Non aveva mai maturato un acceso antisemitismo, seppure trovasse gli ebrei abbastanza ripugnanti. Ma non più di tanti altri.

domenica 6 novembre 2011

Un Video - Mary & Max



giovedì 3 novembre 2011

Catching Hell



In che modo si attivano le dinamiche legate al capro espiatorio? Qual è il ruolo dei media nel creare il mostro? Alex Gibney cerca di fornire il suo punto di vista partendo dai casi di Bill Buckner e Steve Bartman, entrambi legati al mondo del baseball. Il primo è un ex giocatore dei Boston Red Sox che nel 1986 commise un clamoroso errore (non decisivo) in un frangente topico della gara 6 (si gioca al meglio delle 7) delle finali; il secondo un tifoso dei Chicago Cubs che, nel 2003, sempre nella gara 6 (delle semifinali) si sporse per prendere un palla che stava finendo fuori campo, ostacolando un giocatore della sua squadra, e finendo per far perdere il punto (non decisivo) al team. Su entrambi, benché fossero responsabili in modo diverso, di errori non decisivi, e rimediabili, si abbatté la furia popolare ed il pubblico ludibrio. Tuttavia, mentre Buckner è un professionista, che ha messo nel conto l'essere sotto i riflettori dei media (sebbene, ne esca fuori un uomo distrutto moralmente), Bartman è solo una ragazzino (a kid, a fan) che si trova invischiato in qualcosa più grande di lui. Vive da anni nascosto, rifiutando ogni apparizione.

Gibney mostra come la mentalità animale del branco si impadronisca della folla, e che per l'uomo medio sia più facile incolpare il singolo di tutti i problemi piuttosto che analizzare la situazione complessivamente. Si parla sì, di sport, ma anche della vita in generale. Della piccolezza umana, che pur di rifuggire nei confronti della proprie responsabilità, pur di rifiutare la sconfitta, preferisce additare un singolo e caricare sulle sue spalle ogni onta e riprovazione. I due, Buckner e Bartman, sono responsabili di un errore, ma come viene mostrato chiaramente, non risultano decisivi per le sconfitte delle loro squadre. Vengono però presi come responsabili perché entrambi appaiono come i più deboli, i più facili da incolpare, i più vulnerabili. Ed i media, che pur sono consci delle proprie responsabilità, capiscono troppo tardi d'aver incentivato il mostro.

E' bravo il regista a suggerire che non siano i giocatori a dover essere perdonati dalle rispettive città per i loro errori, ma siano piuttosto loro a dover perdonare Boston e Chicago, per il modo in cui sono stati trattati, umiliati ed offesi. Se nel caso di Buckner ciò (il perdono e la riconciliazione) può avvenire grazie alla catarsi della vittoria del campionato di Boston (20 anni dopo), per Bartman è ancora impossibile: i Chicago non vincono (del resto, non lo fanno dal 1908), e lui continua a vivere nell'ombra.
Così assistiamo alle immagini del povero Bartman, con i suoi buffi auricolari, il suo cappellino da tifoso e la divisa della squadra di ragazzini di cui è allenatore, insultato da 50.000 tifosi che gli danno del coglione, mentre sprofonda sempre di più, incapace di opporre resistenza di fronte a tanta ostilità ed ad un odio così feroce quanto irrazionale.

E' un uomo solo di fronte alla stupidità umana. Ed è destinato a soccombere.

Voto 7.5/10

PS

E' un caso che entrambi gli episodi avvengano quando al potere vi fossero prima Reagan e poi Bush Jr, ovvero due campioni dell'ideologia repubblicana, dell'odio nei confronti dell'altro, della competitività ad ogni costo?

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