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domenica 30 ottobre 2011

Il post su Atene


Esprimevo una crescente mediocrità. Benché mi sforzassi di invertire la tendenza - chi non l'avrebbe fatto - non riuscivo a produrre nulla di sensato. No, avevo sepolto due o tre vite addietro le velleità artistiche tipiche degli adolescenti infelici, e non speravo nemmeno più di diventare quel famoso scrittore underground che andava a presentare libri nelle università di provincia e puntualmente si scopava una studentessa a caso - la più brillante, o, in alternativa, la più carina - tra un reading e l'altro. A dire il vero, più che praticare le discipline erotiche, per qualche tempo avevo sognato di poter insultare un po' la mia ex, da un palco. Non perché meritasse di esserlo - in realtà sì, lo meritava - ma solo per dare sfogo alla mia piccolezza.

Ingrassavo. Sì, l'eterno magro ora ingrassava. Oh, ma niente di eclatante, niente di appariscente. Niente di socialmente compromettente. Ma ingrassavo. A breve avrei probabilmente perso il dono della corsa facile. Ed un grande fuggitivo, come me, senza corsa, è niente. E' meno di niente. E' una preda senza le sue armi tattiche. E senza risorse strategiche. E' un agnello sacrificale, ma laico.

Oggi mentre bevevo un caffè da 5 euro in uno Starbucks, un signore greco, avrà avuto 50 anni, ma ne dimostrava 70, aveva provato a vendermi biglietti della lotteria locale. Avevo rifiutato cortesemente, con un gesto. Cosa me ne facevo dei biglietti della lotteria greca? Lui non aveva accennato alcuna insistenza, e s'era allontanato, senza nemmeno degnarmi di uno sguardo colpevolizzante. Perché era intimamente una persona migliore di me. Perché vendere biglietti della lotteria, una domenica pomeriggio, con la sua faccia che sembrava tirata fuori da un'altra epoca, nobile, povera ed arcaica, ne faceva per qualche oscuro motivo, una persona migliore di me.

Sopratutto, riflettevo, mentre mi crogiolavo della mia nascente mediocrità, sul fatto che occorresse un grande coraggio per essere vigliacchi. No, non era una mia trovata, avevo letto e dedotto il concetto da alcuni testi di Tim O'Brien, e li avevo presi in prestito. Era tutto vero. Serviva un coraggio immane, e per certi versi grandioso, per essere vigliacchi. per essere davvero riprovevoli. Non ché mi sentissi tale, no. Ero pur sempre un uomo medio che errava in una terra di nani. Ma la frase, il concetto, era così grandioso, che m'era balenato in mente, così, nella notte di Atene. Tutti dormivano, l'albergo faceva schifo - la città anche - ed il giorno dopo avevo previsto di mangiare agnello. Ed esprimevo mediocrità.

venerdì 21 ottobre 2011

Il pesante rischio della serietà



Lei sorrideva preoccupata.
No, non era preoccupata, ma timidamente a disagio. Aveva lasciato trasparire una cosa, un'allusione, che non aveva alcun rapporto con me, ma che l'aveva messa in disagio morale nei miei confronti. Almeno secondo lei.
Lei non mi conosceva bene, io non la conoscevo bene. L'allusione sarebbe passata in cavalleria. Nulla da espiare. Non riguardando qualcosa in comune ad entrambi, il tempo avrebbe fatto il suo corso: troppe sono le cose da ricordare, troppe le nuove informazioni, tanto che quelle non sottolineate a dovere finiscono nel posacenere sociale, spazzate via dai venticelli più innocui. Ma a lei non andava bene.
E aveva rischiato.

Sì, aveva rischiato. Puntualizzare. rettificare. Mettere le cose in chiaro. Imprimere alla serata un sussulto di serietà che poteva essere letale. Bisogna essere chiari: quando si vuole puntualizzare qualcosa, in modo forte e diretto, ad una persona poca conosciuta, si rischia di fare la figura dell'idiota. Del(la) fissata. Della disturbata. Della Socialmente Poco Accettabile, SPA. Eppure lei aveva tentato. Non s'era curata del volatile giudizio di un (semi) sconosciuto: o meglio se ne era talmente curata da voler rischiare di passare per disadattata.

Volevo dirti che non avrei assolutamente agito così, prima dalle mie parole avresti potuto dedurre qualcosa di errato. Ci tengo a precisarlo.
Va bene, le avevo risposto. Per il primo minuto avevo effettivamente pensato che la precisazione la mettesse in una posizione grottesca, ridicola. In una posizione Non Socialmente Ottimamale, NSO. Poi però.

Poi però, i minuti erano trascorsi, i passi erano stati fatti, e la temperatura s'era abbassata. I neuroni avevano fatto il loro corso. Il sangue era passato da un'arteria all'altra. Il vento scalfiva ancora le mie braccia. E avevo mutato i pensieri, cominciando a trovare qualcosa di grandioso nelle sue parole.
Sì, grandioso.
Perché se una persona rischiava di apparire scema e fuori dal mondo, persa nell'errore di credersi l'eroina di un romanzo inglese ottocentesco per la sola ragione del volere comunicare serietà, allora c'era qualcosa di entusiasmante in lei. Gli occhi diventavano improvvisamente più luccicanti. I capelli prendevano nuova forma. Le parole cominciavano a risuonare come versi medievali letti da un poeta americano leggermente ubriaco, con una musicalità che conferiva loro vita e vigore. Ed il viso acquisiva grazia. Ed ogni frase era, se possibile, più interessante di quella che l'aveva preceduta. Uno sguardo casuale assumeva vita propria e metaforica. E nell'addio alla fermata dell'autobus c'erano i sintomi dell'arrivederci.

E mentre tornavo, imprecando per il dissesto urbano, sorridevo.

lunedì 17 ottobre 2011

L'altrui dolore



Ero atterrato 1 ora prima. Ora camminavo per Merkela Iela, tentando di orientarmi. L'hotel era ad un paio di KM e avevamo deciso di andare a piedi. Guardavo soddisfatto le facciate degli edifici in stile liberty, come se il solo fatto di osservarli facesse di me una persona migliore. Non ero particolarmente preoccupato - le notte lettone era sì, straniera, ma non particolarmente ostile - e cercavo punti di riferimento. Poi avevo trovato il verso: la vita sarebbe proseguita dritta per un po' e poi avremmo svoltato a destra. E camminavo, con la mia valigetta al seguito, fedele e ridicola come un cane sovietico durante l'occupazione nazista.
Sulla sinistra c'era una fermata dell'autobus. Signori che tornavano a casa, ragazzi che scherzavano, un paio di donne parlavano al cellulare. E una coppia discuteva. Lei leggermente più bassa di lui con lo sguardo sicuro e nostalgico. Stavano una di fronte all'altro, lui le stava posando una mano sulla spalla. E i visi si contraevano sempre di più. E dopo qualche secondo lei era scoppiata a piangere. Le lacrime risaltavano i suoi capelli biondi. Lui allora l'aveva abbracciata tentando di riparare qualcosa di inconsolabile. Non c'era più nulla da salvare, il danno ero fatto. Qualcosa di invisibile agli occhi di 7 miliardi di persone meno due, s'era spezzato. Io ero passato oltre. Era troppo insopportabile dover realizzare che c'era dolore anche al di fuori di Roma e dell'Italia. Che c'erano quindi sofferenze ad anima in pena ovunque. Che infiniti piccoli (e quindi enormi) drammi quotidiani si consumavano in ogni parte del mondo, mentre te eri preso solo a bere una birra o a fare il cretino con una ragazza incontrata 4 anni prima ad una festa alla quale non volevi andare. C'era una ragazza lettone che piangeva, mentre io scorrevo come un ratto in vie che non erano le mie. C'erano lacrime che cadevano anche nei paesi baltici. C'era vita, anche al di fuori della mia tiepida stanza.

sabato 15 ottobre 2011

A Dangerous Method


Il giovane Carl Jung, allievo/discepolo di Sigmund Freud, si ritrova ad essere il medico curante di Sabina Spielrein, 18enne di fascino affetta da una grave forma di isteria . Jung decide di basare la terapia sulle idee del suo mestro, ma ben presto si ritroverà coinvolto emotivamente con la paziente e metterà in dubbio i le teorie del Freud.

Cronenberg firma un film atipico, lontano dai suoi due ultimi gioielli (A History of Violence e La Promessa dell'Assassino), in cui la violenza non esplode, e tutto scorre in modo quasi placido. Per non dire noioso. Certo è interessante veder portato sullo schermo il conflitto allievo/discepolo, /figlio/padre tra Jung e Freud, nonché il modo attraverso cui il sesso e le sue pulsioni sono alla base di qualsiasi nevrosi umana. O anche assistere a come il medico per guarire, debba ammalarsi egli stesso. Ma la pellicola, alla fine, ha un ché di inutile. Non sorprende leggere che sia tratta da una pièce teatrale.

Voto 5/10

Ps

In compenso, mentre vedevo il film, ho appreso che il vibratore è una invenzione freudiana.

mercoledì 12 ottobre 2011

La ragazza che non si voleva far fotografare



La ragazza non amava le si dicesse: "ti faccio una foto", no. Lei voleva scattare foto di monumenti, cibi, piazze, amici, bottiglie e popoli in migrazione. Ma non apprezzava qualcuno le facesse fotografie. Non era un problema di essere bella, brutta, troppo magra o con i fianchi larghi. Le foto non andavano fatte. Le foto erano la morte che si metteva al lavoro, e imprimevano per sempre su un qualcosa di indefinito e digitale, un attimo che era già passato. Quando le puntavi contro la macchina, lei si girava. Non urlava o inveiva, semplicemente volgeva il viso verso la libertà. La libertà di non essere intrappolata in un file. E lo scatto, sempre troppo tardivo, restava impigliato nelle tue dita. La ragazza non amava farsi fare foto: poteva condividere ogni cosa, ma le foto no. Troppa violenza silenziosa in quei visi, troppi ricordi racchiusi in pochi pixel, lei credeva di meritare meglio. Troppa amarezza, troppa consapevolezza nella foto. Troppo materiale innocuo che il tempo avrebbe trasformato in dolore. No, lei non amava farsi fare foto.

Blue Valentine





Giovane coppia americana di provincia (Pennsylvania), alle prese con le sofferenze dell'amore e la variabile più incomprensibile: la vita.

C'è qualcosa di perfetto nell'imperfetto film di Cianfrance: nel non cercare effetti speciali, scene fuori luogo, dialoghi da melodramma shakespeariano, momenti epici accompagnati di violini piangenti. No, si mette in scena la vita, la coppia l'amore, senza abbellirla o svilirla. Ci si accontenta di osservare, esternamente, la nascita ed il disfacimento di una coppia (grazie al sagace montaggio le due cose avvengono in contemporanea). Il tutto viene trattato con un tocco semplice, minimalista, che si accorda perfettamente con la lentezza del film. Belli i colori delle scene del passato, in contrasto con quelli più artificiali del presente, e davvero brillante l'idea della Camera del Futuro, come teatro dell'ultima notte assieme.

Ma oltre al tocco della perfezione silenziosa il film lascia con qualche dubbio: se nella rappresentazione classica dei love movie, le colpe tra le componenti di una coppia vengono sempre divise o quantomeno sono in compartecipazione, in questo caso sembra di essere in presenza di un rapporto tra una strega acida ed egoista (una brava Michelle Williams) ed un ragazzo semplicemente innamorato (un intenso Ryan Gosling) che accetta tutto, ma davvero tutto, pur di stare con lei.
Certo, la Williams rappresenta, per sua stessa ammissione una donna che non ama più il proprio uomo, che non sopporta e tollera più alcun gesto, e quindi non è più in grado di gestire serenamente il rapporto. E' una donna da amare o odiare, che non ammette mezze misure, come si lascia intendere nella scena della barzelletta sulla pedofilia. Ma fa quasi male vedere Gosling trattato così, senza nemmeno quel briciolo di pietà che si dovrebbe sempre ad un proprio partner. Ma è, evidentemente, l'amour en fuite, e non c'è più niente da fare.

Finale perfetto.


Voto 7/10

Ps

Davvero bella la sconosciuta You and Me dei Penny & The Quarters. Tutte le coppie hanno le stesse canzoni d'amore, noi no, ne abbiamo una che è solo nostra.


domenica 9 ottobre 2011

Drive





Meccanico, stuntman a piccole dosi, autista per malavitosi quando serve (come nei primi cinque, formidabili, minuti della piccola), il Ragazzo aka The Kid è un personaggio che non esiste. Non parla, accenna sorrisi, non ha paura, non cambia quasi mai espressione, comunica non verbalmente. Conosce Irina, la fragile vicina di casa che la vita ha invecchiato precocemente, e si trova coinvolto in una rapina assieme all'ex marito. Le cose non andranno come previsto.

C'è qualcosa di monumentale e di classico nella mono-espressività di Ryan Gosling - il ragazzo senza nome protagonista del film di Nicolas Winding Refn - nella sua mimica facciale in bilico tra apparente stupidità e freddezza cinica. Indossa sempre la stessa felpa, con uno scorpione sulla schiena. Che voglia dire che l'apparenza innocua può ingannare ed è sempre pronto ad essere letale? Il ragazzo non viene da nulla: "è arrivato qui 6 mesi fa, non so da dove," dice il suo capo all'officina. Forse da un mondo di miseria, violenza e oblio, se prendiamo in parola le frase che rivolge ad Irina: "tu e Benicio [suo figlio ndr], siete la cosa più bella che mi sia mai capitata". Non va verso nulla, come suggerisce il finale. E non sembra avere alcuna aspirazione fino all'incontro con Irina e Benicio: è grazie a lei che diventerà forse un real hero, sicuramente uno human being, un essere umano.


Frutto della lezione di Melville, Cronenberg e fratelli Coen, Drive è un noir che alla volta omaggio al film europeo di genere degli anni '70 e figlio delle influenze americane degli anni '80. Gli inseguimenti sono una miscela di spettacolo e scrittura, senza mai essere (troppo) fini a sé stessi. La violenza esplode improvvisamente per poi scomparire e rimanere in sottofondo. La sceneggiatura è di quelle che rasentano la perfezione: il film procede lentamente, senza urli, senza subire mai battute d'arresto, come fosse un treno regionale tedesco degli anni '30. L'unione di thriller, azione e dramma è pressoché senza sbavature, e l'innesto sentimentale non conduce il film verso lo squallido melodramma, ma anzi, conferisce maggiore dignità alle scelte dei personaggi. E Gosling pare, per la recitazione, un incrocio tra Eastwood e McQueen. Premio per la Miglior ragia a Cannes, meritato.

Coraggiosa la scelta del finale che risulta a metà tra il dramma e l'happy end.

Voto: 7,5/10


P.S.

Perfetta la canzone A Real Hero dei College.



domenica 2 ottobre 2011

Memorie Baltiche



"Nsomma te che vai a fa' nlettonia?"
"Mah, niente, npo' de giri, già ce so stato npaio de volte.."
"Donne?"
"Sì sì, me vado a diverti'"
"Ma come le becchi, direttamente là?"
"Sì anche, ma l'ideale è preparassele direttamente da Roma"
"Nche senso?"
"Che cominci a sentirle mentre stai ancora a Roma, prendi i contatti, de modo che 'na volta arrivato lì tutto più facile.."
"Vabbè ma i contatti come li pii?"
"Co' Badoo, te metti là npochetto e via, è fatta"
"E come glie fai, glie clicchi e glie parli?"
"Sì, ma te intanto te le lavori pe' un paio de' mesi, che se glie dici 'vengo domani a Riga', quelle sgamano subito. Nvece te le lavori pe' npo' e poi glie fai 'Sai che tra 'na settimana vengo a Riga?"
"Forte, e funziona veramente?"
"Da paura fratè, nel week end c'hai la scelta de chi trombatte, l'altra volta che so' stato su, so state 3 giorni co una e 4 co n'artra"
"Mo me ce metto pur'io, nsomma co' Badoo eh?"
"Regolare"


Ero seduto davanti ai due. Purtroppo ero vagamente costretto a sentirli, perché davanti  a me c'era invece un gruppo di napoletani, sempre in cerca di turismo sessuale, ma le cui conversazioni non erano tanto auliche quanto quelle dei romani che avevo dietro. Il tutto sembrava paradossale. Uno non ci vuol credere che ancora esista il turismo sessuale, e/o gente tanto sfigata da buttare un tot di cento euro per farsi un trombata baltica. E invece ce n'erano e nemmeno pochi. I napoletani, in particolar modo, avrebbero dovuto parlare con la fauna locale a gesti, dato che l'italiano difettava e l'inglese era assente. Ma probabilmente sarebbero riusciti a farsi capire. Ci si fa sempre capire quando si vuole. Il tipo che mi stava di fianco, gruppo Napoli, era vestito come un cafone in vacanza a Rimini: jeans scoloriti strappati, maglietta con a V con scritte dorate in inglese prive di senso logico, capelli ingelatinati come un coglione americano di provincia. Una tipa due file indietro leggeva un libro di Bukowski. Probabilmente era la persona più seria sull'aereo. E quella sessualmente meno riprovevole. Si teneva infatti alla larga sia da me, che dai romani che dai napoletani. Come darle torto.
A conferma del fatto ci trovassimo su un aereo stipato di mentecatti, arrivò puntuale l'applauso al momento dell'atterraggio. Quelle mani scalpitanti che ti ricordavano da quale posto miserabile provenissi. La loro maledetta mania di applaudire gli atterraggi, come fossero dei trogloditi in visita nel mondo civile Per certi versi lo erano, in effetti. Poi io ero sceso, ero entrato per sbaglio nel bagno delle donne - strano, non c'era l'urinatoio - e m'ero diretto alla fermata dell'autobus. Ero arrivato in Lettonia.

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